FLEXSECURITY: INCOMINCIAMO A SPERIMENTARLA CON LE IMPRESE CHE CI STANNO

LE RISORSE NECESSARIE PER PASSARE DALLA VECCHIA ALLA NUOVA TECNICA PROTETTIVA VANNO TROVATE ELIMINANDO GLI SPRECHI CONNESSI AL RITARDO SISTEMATICO CON CUI OGGI SI AFFRONTANO LE CRISI OCCUPAZIONALI AZIENDALI

Lettera sul lavoro pubblicata il 9 gennaio 2012 sul Corriere della Sera – Segue una breve replica di Massimo Mucchetti, con una mia contro-replica

Caro Direttore, sul Corriere di ieri Massimo Mucchetti chiede “chi paga” per i nuovi “ammortizzatori sociali” di livello nord-europeo di cui si sta discutendo intensamente in questi giorni. Poiché ‑ aggiunge lo stesso Mucchetti ‑ oggi non è pensabile che a pagare sia lo Stato, il quale non ha neppure un euro da mettere sul tavolo del negoziato, dobbiamo stare attenti a “non parlare di riforme a vanvera”. A ben vedere, questa è la stessa obiezione che viene mossa da sinistra al progetto flexsecurity, sostenuto da una parte del Centro-sinistra e dal Terzo Polo: se potessimo avere in Italia gli stessi ammortizzatori sociali e gli stessi servizi che operano nei Paesi scandinavi, allora sì potremmo rinunciare all’articolo 18; ma poiché in Italia quelle risorse non ci sono…
            In realtà quelle risorse ci sono eccome. Basterebbe che incominciassimo a correggere gli enormi sprechi a cui oggi assistiamo quotidianamente, proprio nel campo delle politiche del lavoro. Un primo spreco enorme è costituito dagli interventi della Cassa integrazione a zero ore “a perdere”, a cui finora si è fatto sistematicamente ricorso non per risolvere le crisi occupazionali aziendali, ma per differire il problema, per così dire “congelandolo”. Per due o tre anni si fa finta che i lavoratori possano riprendere a lavorare nella stessa azienda ora in crisi, anche quando è certo che questo non potrà accadere. Oggi in questo modo si spendono fiumi di denaro, che potrebbero facilmente essere spesi molto meglio. Potrebbero, cioè, essere spesi per un sostegno del reddito anche più robusto di quello oggi offerto dalla Cassa integrazione, ma condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore per la ricerca della nuova occupazione. Per questo occorrerebbe chiamare le cose con il loro nome: riconoscere che il rapporto di lavoro non c’è più e che si attiva un trattamento di disoccupazione.
            Prima ancora dell’intervento della Cassa integrazione, c’è poi un altro spreco di risorse che può essere eliminato: quella ingente perdita che viene imposta alle imprese dal sistema attuale, per il ritardo nell’aggiustamento degli organici quando questo si rende necessario. Secondo le valutazioni di chi ha le mani in pasta, all’impresa italiana di dimensioni medio-grandi oggi occorre attendere mediamente dai due ai sei anni, prima di riuscire a sciogliere i rapporti di lavoro improduttivi. Converrebbe dunque per prime alle imprese stesse uno scambio così strutturato: si azzera quel ritardo e, utilizzando una parte del risparmio, ciascuna impresa si accolla un trattamento complementare di disoccupazione, tale da portare il sostegno del reddito dei lavoratori licenziati al livello di quello dei Paesi scandinavi.
            Insomma, se si cambia il modo in cui oggi si affrontano le crisi occupazionali aziendali la questione posta da Massimo Mucchetti può essere risolta agevolmente. Resta però un problema. A fronte del forte interesse manifestato da molti imprenditori per lo scambio di cui si è detto, ce ne sono altri che non si fidano. Temono che il gioco non valga la candela, che al dunque aumenteranno i costi ma non si ridurrà effettivamente il ritardo nel possibile aggiustamento degli organici. Il modo migliore per risolvere questo problema consiste nell’aprire una fase di sperimentazione, nella quale si pone il nuovo schema a disposizione delle imprese che intendano avvalersene per le loro nuove assunzioni. In altre parole, il Governo può dire alle imprese: “A quelle di voi interessate a scommettere su un modo nuovo di affrontare le crisi occupazionali, offriamo la possibilità di costituire i nuovi rapporti di lavoro secondo un regime diverso dal passato, nel quale l’aggiustamento degli organici può avvenire senza ritardo, l’Inps corrisponde a chi perde il posto una prima parte del trattamento di disoccupazione, l’impresa si impegna a garantire un congruo trattamento complementare, accompagnato da servizi eccellenti di assistenza nel mercato del lavoro, la Regione si impegna a coprire il costo standard di mercato di quei servizi”.
            In questo modo si potrebbe verificare pragmaticamente se il “gioco a somma positiva” funziona davvero. Dove l’impresa è interessata e disponibile, al lavoratore assunto da qui in avanti sono garantiti quel sostegno del reddito e quei servizi di livello nord-europeo a fronte dei quali anche da sinistra si considera accettabile lo scambio tra la vecchia tecnica protettiva e la nuova. Non sarà dunque il lavoratore assunto con queste regole a perderci, soprattutto a confronto con quel che gli si offre oggi nel nostro mercato del lavoro. E fra qualche anno probabilmente toccheremo con mano che, al contrario, sono tutti a guadagnarci.

LA REPLICA DI MASSIMO MUCCHETTI: BUONA PROPOSTA, MA OCCORRONO I DATI
Il senatore Ichino suggerisce sperimentazioni volontarie. Buona proposta. Sarebbe ottima se fosse corredata da qualche ricerca scientifica sull’uso della Cassa integrazione negli anni. Era quanto chiedevo nella rubrica di domenica. Non si tratta di argomenti di sinistra o di destra, ma di impegni di spesae di coperture. Che i giornalisti, ammaestrati dai magheggi della finanza, non possono accettare a scatola chiusa. Prima di giudicare questa o altre riforme, sarebbe meglio vederne i numeri.  (m. mucch.)

LA MIA CONTRO-REPLICA: I DATI CI SONO, SIA SULLA CIG “A PERDERE”, SIA SUI COSTI DELLA FLEXSECURITY
Sulla Cassa integrazione “a perdere”, cioè quella usata impropriamente per nascondere dei licenziamenti, i dati li ha forniti nell’aprile scorso la Banca d’Italia: se ben ricordo si tratta di circa 500.000 lavoratori il cui stato di disoccupazione è mascherato da una formale “sospensione” del rapporto con intervento della Cassa “a zero ore”. Dopo una breve polemica su questo dato, anche il ministro dell’Economia dell’epoca, Giulio Tremonti, fu costretto a riconoscere la fondatezza di questo dato, che porta la percentuale effettiva della nostra disoccupazione dall’8,3 all’11 per cento della forza-lavoro complessiva, cioè al di sopra della media UE. Ricordo inoltre a Massimo Mucchetti i dati impressionanti che risultano dal confronto tra il gettito dei contributi versati dalle imprese per la Cassa e le somme complessivamente erogate dalla Cassa stessa nell’ultimo quinquennio prima della grande crisi, sui quali il 30 settembre 2009 ho presentato, con altri 60 senatori del Pd, un’interrogazione che è rimasta senza alcuna risposta da parte del Governo (dal che si può trarre una conferma della bontà dei dati stessi). Quanto, infine, ai costi del progetto flexsecurity per le imprese, essi sono analiticamente presentati nelle ultime slides della presentazione in formato power point che è da tempo on line su questo sito.

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