IL RUOLO DELLA FORMAZIONE NEL SISTEMA DELLA FLEXSECURITY

LA SPERIMENTAZIONE PREVISTA NEL PROGETTO MIRA ESSENZIALMENTE A CONSENTIRCI DI SVILUPPARE IL KNOW-HOW INDISPENSABILE PER L’ATTIVAZIONE DI UN REGIME SERIO DI ASSISTENZA INTEGRALE AL LAVORATORE, EFFETTIVAMENTE CONDIZIONATA ALLA SUA PARTECIPAZIONE ALLE INIZIATIVE DI RIQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE E RICERCA INTENSIVA DELLA NUOVA OCCUPAZIONE

Intervista a cura di Carlo Barberis, in corso di pubblicazione su Human Training – luglio 2009

 

Senatore Ichino, l’impiego del paradigma della flexsecurity puo’ essere interpretato, da parte dell’impresa, come un’opportunità o una minaccia?

Ovviamente soltanto come un’opportunità. Il disegno di legge che ho presentato con altri 35 senatori (n. 1481/2009) prevede che quel nuovo regime sia sperimentato soltanto nelle imprese che lo scelgono, firmando un apposito contratto: dove è necessario il consenso non può, evidentemente, esserci minaccia. L’esperimento proposto, comunque, è un gioco a somma positiva, in cui tutti hanno da guadagnare: sia le imprese, sia le nuove generazioni di lavoratori.

 

Che cosa guadagnano le imprese?

Le imprese guadagnano un grande aumento della flessibilità: la possibilità di aggiustamento quantitativo degli organici e anche di sostituzione di lavoratori, senza che la loro scelta in proposito sia sottoposta a controllo giudiziale. Per i dettagli devo rinviare al mio sito: www.pietroichino.it.

 

E le nuove generazioni di lavoratori?

Guadagnano un rapporto a tempo indeterminato per (quasi) tutti. Nessuno inamovibile, ma per tutti un sostegno di livello scandinavo in caso di perdita del posto di lavoro: sul piano economico, su quello della ricerca intensiva della nuova occupazione e su quello della riqualificazione mirata ai nuovi sbocchi professionali.

 

Che tipo di contratti di lavoro si stipulano nel regime di flexsecurity?

Qualsiasi tipo di contratto di lavoro, a tempo pieno o parziale, dall’apprendistato al job sharing, dal lavoro a domicilio al telelavoro.

 

Allora è sbagliato indicare questo progetto con l’espressione “contratto unico di lavoro”?

Sì: di “unico” nel progetto c’è solo uno standard universale di sicurezza offerta a tutti i nuovi assunti. Una sicurezza, però, non più fondata sull’ingessatura del singolo posto di lavoro, ma su di un sostegno forte al lavoratore nel processo di aggiustamento

 

Parlando di flessibilità, dal suo osservatorio, quali competenze peculiari dovrebbero possedere i responsabili delle risorse umane?

Oltre alle capacità richieste tradizionalmente, grande conoscenza del mercato del lavoro e capacità di orientare e guidare i lavoratori in esso: la flessibilità, nel progetto di cui stiamo parlando, sarà tanto maggiore e costerà tanto meno all’impresa, quanto più breve sarà il periodo di disoccupazione dei lavoratori licenziati.

 

Che cosa potrebbe fare il sistema formativo per divulgare e sostenere la flexsecurity?

La riqualificazione professionale necessaria per la flexsecurity deve consistere in formazione direttamente mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Niente a che vedere, quindi, con i corsi di formazione tradizionali, affidati a istruttori “di ruolo”, che si ripetono di anno in anno sempre uguali a se stessi. Occorre, di volta in volta, una formazione progettata su misura per ciascuna esigenza specifica. In questo il sistema della formazione professionale deve distinguersi nettamente dal sistema scolastico: niente “istruttori di ruolo”, inamovibili sulle loro cattedrine, ma organizzatori di itinerari formativi sempre nuovi, capaci di interagire profondamente con le imprese anticipando le loro esigenze di personale a breve e medio termine.

 

Confindustria sostiene che questo suo progetto costerebbe troppo alle imprese.

Ho invitato i dirigenti di Confindustria a rifare bene i conti, facendo riferimento non all’ipotesi peggiore, nella quale non si riesce a ricollocare il lavoratore, ma all’ipotesi media, nella quale il lavoratore può e deve essere ricollocato entro un periodo dai tre ai sei mesi. Un obiettivo di questo genere è facilmente raggiungibile, se l’agenzia deputata al compito di orientare e ricollocare il lavoratore licenziato funziona bene e utilizza correttamente i propri poteri di controllo sul comportamento del lavoratore stesso, sulla sua disponibilità effettiva per le iniziative di ricerca della nuova occupazione e di riqualificazione in funzione di essa. In ogni caso, secondo il progetto, sulle imprese dovrebbe gravare soltanto il costo del sostegno del reddito del lavoratore, mentre i costi dei servizi di orientamento, assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto e riqualificazione professionale mirata dovrebbero essere interamente coperti dai contributi delle Regioni e del Fondo Sociale Europeo.

 

Senatore Ichino, in qualità di giuslavorista, che modifiche apporterebbe alla legge Biagi?

Prima di modificarla, incomincerei coll’attuarla compiutamente.

 

Perché? A sei anni dalla sua emanazione non è ancora stata attuata compiutamente?

No. L’apprendistato di alto livello non è stato ancora fatto decollare. Sui limiti del lavoro a progetto, si alternano periodi di maggior rigore con periodi in cui prevale un assoluto lassismo. Lo staff leasing è stato prima fortemente ostacolato sul piano sindacale, poi addirittura abrogato nel dicembre 2007; e sì che non si trattava affatto di una forma di lavoro precario, bensì di una forma di lavoro a tempo indeterminato, con stabilità protetta dall’articolo 18! In realtà, era un tentativo molto avanzato di coniugazione di flessibilità per le imprese con sicurezza dei lavoratori: era anche quella una forma di flexsecurity! Ma la vecchia sinistra politica e la Cgil non lo hanno capito. Non lo hanno voluto capire.

 

Al fine di sviluppare una maggior competitività del Sistema Paese, tramite la formazione, in qualità di strumento di divulgazione del sapere e del saper fare, che ruolo dovrebbe avere il sindacato?

Nel progetto per la transizione a un regime di flexsecurity, di cui stiamo parlando, al sindacato spetta innanzitutto il compito di negoziare l’attivazione dell’esperimento con l’impresa o il gruppo di imprese. Poi quello di dar vita con la stessa impresa o gruppo di imprese all’agenzia cui verrà affidata l’assistenza ai lavoratori nei processi di aggiustamento industriale e di mobilità interaziendale.

 

Ente bilaterale?

O consorzio, o anche puro e semplice “sportello” gestito direttamente da una struttura aziendale preesistente: il disegno di legge lascia alle parti la più ampia libertà nella scelta della forma organizzativa. Quale che sia la forma prescelta, comunque, il sindacato dovrà codecidere con l’impresa interessata i criteri di valutazione della disponibilità del lavoratore per la nuova occupazione che gli viene offerta: la scelta migliore, infatti, è quella di non predeterminare rigidamente questi criteri (per esempio: disponibilità nel raggio di 50 chilometri, oppure di 80 minuti di percorrenza; disponibilità per una nuova retribuzione pari o superiore all’80 per cento dell’ultima percepita prima del licenziamento), ma lasciare che essi vengano concordati di volta in volta in relazione alle condizioni del mercato del lavoro e alle caratteristiche personali del lavoratore. Come avviene nei Paesi del nord-Europa dove queste cose funzionano bene.

 

Negli ultimi anni gli enti bilaterali hanno assunto un primario ruolo nella formazione continua , dando vita e gestendo i Fondi interprofessionali. Che giudizio dà lei di questa esperienza?

Il Governo e una parte del movimento sindacale sono fortemente favorevoli all’ampliamento dell’esperienza degli enti bilaterali, mentre la Cgil anche su questo punto è diffidente. L’esperienza di questi ultimi anni ci presenta alcuni enti bilaterali che hanno funzionato molto bene: per esempio, volendo limitare il discorso al campo dei servizi al mercato del lavoro, nel settore edile o in quello artigiano; ma anche i fondi per la previdenza complementare sono enti bilaterali e, nel complesso, stanno funzionando bene. Altri enti bilaterali, invece, hanno funzionato, tutto sommato, male: sono serviti più come “cimiteri per gli elefanti”, per prepensionare vecchi dirigenti sindacali o di azienda, che come cogestori di servizi di alta qualità. Insomma, ogni generalizzazione mi sembra sbagliata, sia quella negativa, sia quella positiva.

 

In che modo gli enti bilaterali potrebbero maggiormente contribuire al potenziamento del settore della formazione continua?

Lascerei alle parti interessate di scegliere la forma che preferiscono per gli enti gestori dei servizi di orientamento e formazione. E lascerei che modelli organizzativi e di governance diversi si confrontino liberamente tra loro, in modo che da questa competizione si possano trarre indicazioni utili per gli sviluppi futuri. Ciò che è indispensabile è che l’efficienza di ciascun fornitore di servizi venga misurata oggettivamente, in modo che il confronto sia il più possibile preciso e stringente.

 

Come?

Per esempio, nel settore della formazione professionale, un indice importantissimo della qualità della performance è costituito dal tasso di coerenza tra formazione e sbocchi occupazionali effettivi ottenuti da coloro a cui essa è stata impartita. Nel disegno di legge sulla transizione al regime di flexsecurity è previsto che questo dato sia rilevato obbligatoriamente in modo sistematico, in riferimento all’attività delle “agenzie” istituite da aziende e sindacati per la gestione della mobilità interaziendale.

 

In generale parlando di formazione si tende a fare riferimento a un fiume di denaro pubblico – si stima circa 15 miliardi di euro annui- che finanzia i corsi, a volte anche inutili per gli allievi, ma molto utili per le tasche di chi li organizza.

In Italia il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi non viene rilevato in modo sistematico, ma soltanto in modo episodico e poco diffuso: solo così possiamo tenere pietosamente nascosta la misura dell’inefficienza e inefficacia di un sistema che spreca più di metà delle risorse pubbliche destinategli dalle Regioni e dall’Unione Europea. Inoltre, ci sono Regioni – la Sicilia in testa a tutte – che pagano lauti stipendi a centinaia e centinaia di “istruttori” e “formatori” assolutamente inidonei alla funzione, i quali sovente vengono lasciati per anni e anni senza far nulla. Sono miliardi letteralmente gettati dalla finestra.

 

Che cosa si potrebbe fare per razionalizzare e impiegare con più efficacia queste risorse?

Istituire una rete di valutatori indipendenti, sul modello delle audit commissions che nel Regno Unito controllano l’efficienza e l’efficacia dei servizi pubblici. I valutatori indipendenti non impiegherebbero molto tempo a mettere in evidenza le situazioni più gravi di spreco, i rami totalmente secchi che andrebbero immediatamente tagliati. Ma, soprattutto, una rete di valutatori indipendenti ben coordinata, impegnata quindi ad applicare metodi di rilevazione comuni e a produrre risultati confrontabili, consentirebbe di creare delle graduatorie tra i diversi servizi, individuando i migliori e misurando il “distacco” dei peggiori. Questo consentirebbe di fissare ai responsabili delle strutture meno virtuose degli obiettivi stringenti di miglioramento, facendo dipendere da questi il mantenimento dell’incarico o il licenziamento. È quello che chiamiamo il metodo del benchmarking comparativo.

 

È quanto prevede ora la legge n. 15/2009, la “legge Brunetta”, per tutte le amministrazioni.
Sì: effettivamente, per questo aspetto la legge Brunetta ha attinto largamente al mio disegno di legge n. 746/2008 sulla trasparenza e la valutazione nelle amministrazioni pubbliche. Il problema, però, è che il campo di applicazione di questa legge è limitato alle amministrazioni statali, mentre qui stiamo parlando di servizi che rientrano nella competenza delle Regioni. Occorre che le Regioni recepiscano al più presto questo modello di controllo sistematico e si coordinino per rendere possibile l’attivazione del metodo del benchmarking comparativo.

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