IL DIBATTITO AL SENATO SULLA RIFORMA FORENSE – 4. LA QUESTIONE DEI MINIMI INDEROGABILI

SCONTRO IN SENATO TRA DUE VISIONI FRA LORO PROFONDAMENTE DIVERSE SULLA DISCIPLINA DELL’AVVOCATURA, SULLA CONCORRENZA TRA PROFESSIONISTI, LA DEROGABILITA’ DEI MINIMI TARIFFARI E LA DISCIPLINA DELLO SVOLGIMENTO DELLA PROFESSIONE

Interventi dei senatori Longo, Morando, Benedetti Valentini, del sottosegretario alla Giustizia e miei, tratti dal resoconto stenografico delle sedute antimeridiana e pomeridiana del Senato del 20 ottobre 2010 – Gli interventi estratti dalle sedute precedenti sullo stesso tema sono agevolmente reperibili nella sezione Giustizia di questo sitoIl dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 1Il dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 2IIl dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 3;  il dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 5. La questione delle incompatibilità professionali

Sommario
1. Sul difetto fondamentale di impostazione politica del disegno di legge
2. Sull’esenzione dall’obbligo di aggiornamento professionale per gli avvocati con cariche elettive
3. Sulla questione se sia opportuno che si riapra la discussione sul disegno di legge in Commissione Giustizia
4. Sulla questione dell’inderogabilità delle tariffe minime e del divieto del patto di quota-lite
5. Sulla questione dell’incompatibilità della professione forense con la subordinazione
6. Sul requisito della continuità dell’esercizio della professione forense

1. – SUL DIFETTO FONDAMENTALE DI IMPOSTAZIONE POLITICA DEL DISEGNO DI LEGGE

ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, il modo per così dire stagionale con cui il Senato sta affrontando un disegno di legge come questo, su una riforma di grande rilievo, come quella dell’ordinamento forense, non dipende né da una distrazione della Presidenza del Senato né da cattiva volontà di questa Assemblea, ma dal grave errore originario di impostazione di questo provvedimento. Due anni fa, nel novembre 2008, il ministro Alfano, al Congresso nazionale forense di Bologna, ha fatto agli avvocati un discorso che suonava sostanzialmente così: se voi mi portate un disegno di riforma sul quale concordino tutte le componenti e le voci dell’avvocatura, io mi impegno a farlo passare in Parlamento. Con questo discorso il Ministro mostrava di non tenere nel minimo conto il fatto che – dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo, nel quale l’Ordine degli avvocati era al tempo stesso ente pubblico e organo unico di rappresentanza degli interessi economici e professionali degli avvocati – la disciplina della professione forense non è più posta dallo Stato nell’interesse prioritario degli avvocati, bensì è posta principalmente nell’interesse dell’amministrazione della giustizia e della collettività. Sulle linee e sui contenuti della riforma, dunque, non poteva certo bastare un accordo limitato alle componenti interne dell’avvocatura. In realtà. Quell’accordo in seno al ceto forense che il ministro Alfano richiedeva non è stato affatto raggiunto: ad esempio, non sono affatto d’accordo con questo disegno di riforma i giovani avvocati. In ogni caso, semmai si sarebbe dovuto costruire un accordo con gli organismi e le associazioni che rappresentano l’interesse dell’amministrazione della giustizia, l’interesse degli utenti e delle imprese, l’Antitrust e l’interesse ad un corretto svolgimento della concorrenza nel mercato dei servizi forensi e legali. Di tale interesse, che avrebbe dovuto costituire il punto di riferimento principale per questa iniziativa legislativa, il ministro Alfano si è invece totalmente dimenticato, con il risultato che, appena partito, il disegno di legge si è incagliato. Così stando le cose, chiedo al Governo di chiarirci se, nei cinque mesi che sono trascorsi dall’ultima volta in cui ci siamo occupati di questo provvedimento, sia maturata un’impostazione più meditata, una considerazione più attenta degli interessi che questa nuova legge dovrà proteggere. Vorrei che ci venisse anche chiarito quali modifiche ne derivano, secondo gli intendimenti del Governo, nelle linee portanti del disegno di legge.

[…]

LIVI BACCI (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LIVI BACCI (PD). Signora Presidente, intervengo per ricordare che noi abbiamo cominciato la discussione su questo provvedimento il 30 marzo. Da allora, vi sono state dedicate 11 sedute in sei tornate e questa è la dodicesima. Durante queste 11 sedute, sono stati svolti 137 interventi, in un certamen oratorio che ha certamente arricchito la mia cultura e, devo riconoscerlo, risultiamo tutti più ricchi adesso. Faccio però anche rilevare che sono stati approvati 6 articoli, dei 9 discussi, su un articolato di 66 articoli. Quindi, abbiamo approvato un articolo su 11. Di questo passo, facendo una previsione esoterica, occorreranno 2.000 giorni per completare l’esame di questo provvedimento di legge, ovverosia sei anni. Ebbene, alcuni colleghi più competenti di me mi dicono che questa legislatura non è destinata a durare tanto e che forse durerà meno di sei anni. Allora io mi domando se questo sia l’ulteriore giorno nel quale il provvedimento viene portato qui come tappabuchi, perché questo Senato non ha articolati di sostanza da discutere e non ha abbastanza mozioni di riserva da discutere. (Applausi del senatore Astore). E noi siamo ancora una volta qui a discutere, ad accantonare e ad intervenire su un disegno di legge che, evidentemente, è uscito malformato dalla Commissione e ci viene qui sottoposto nell’incertezza totale, sia della maggioranza che dell’opposizione. Noi non vogliamo essere ulteriormente presi in giro! Esiste una dignità di questo Senato da rispettare. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Astore).

 […]

PORETTI (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PORETTI (PD). Signora Presidente, visto che riprendiamo l’esame di questo disegno di legge, di cui abbiamo trattato l’ultima volta il 27 maggio scorso, credo sia importante cercare di capire i motivi di questi emendamenti e di questo stallo nei lavori dell’Aula. Poco fa è stato ricordato come su 10 articoli (oggi stiamo esaminando l’articolo 10) soltanto quattro sono stati approvati, mentre gli altri sono stati accantonati. Si tratta poi di articoli corposi, quali l’articolo 1, il 2, il 3 e il 4, tutti articoli il cui esame è stato accantonato e che hanno visto anche la presentazione di emendamenti da parte del relatore. Credo pertanto sia importante capire cosa è accaduto, anche per comprendere come andare avanti. Infatti, o mancano decreti-legge, per cui l’Aula, non sapendo di cosa trattare, ogni tanto riprende in esame questo provvedimento – nelle discoteche si parla di brani riempipista, per l’Aula si potrebbe parlare di provvedimenti di riempimento – oppure si deve dar conto di promesse fatte e che per certi versi non vengono mantenute: promesse fatte, da una parte, al Consiglio nazionale forense e, dall’altra, all’Ordine degli avvocati. È possibile che entrambe le ipotesi siano valide: che manchino decreti-legge e disegni di legge da sottoporre all’esame del Parlamento, non più abituato ad esaminare provvedimenti trasmessi dalle Commissioni (perché, quando arrivano in Aula, si evidenzia che l’Assemblea non è poi così compatta come nelle Commissioni), e che anche la seconda ipotesi sia vera. Ma se è vera anche la seconda ipotesi, si dimostra che anche l’Italia del 2010 per certi versi subisce il retaggio dell’Italia dei primi del Novecento, e cioè di un’Italia che continua a restare ostaggio degli ordini e delle corporazioni, che dettano al Parlamento le leggi di cui hanno bisogno e che questo in qualche modo deve assecondare. È uscito in questi giorni un libro che credo vi sarebbe di utile lettura: «Il cappio. Perché gli ordini professionali soffocano l’economia italiana», edito da Rubbettino e scritto da Riccardo Cappello, che è un avvocato. Il libro, quindi, non è stato scritto da qualcuno che per qualche motivo ce l’ha con gli avvocati. L’autore ricorda giustamente come gli ordini professionali, in primis proprio l’ordine forense, in qualche modo abbiano legato, ingabbiato, bloccato e – come dice il sottotitolo – soffocato l’economia italiana: «Se con 230.000 iscritti all’albo forense importiamo consulenza legale, se non esiste la meritocrazia, se la burocrazia è pletorica e inefficiente, se la culla del diritto ne è diventata la bara, se ogni legge che entra in Parlamento ne esce finendo col dare più potere a quelli cui avrebbe voluto ridurlo, se persino il mondo dello sport è afflitto da periodiche scosse telluriche. Se, cioè, la vita italiana è costellata da tanti scandali che si ripropongono con ciclica periodicità e con ossessionante ripetitività, non può trattarsi di vicende svincolate tra loro ma deve ragionevolmente ritenersi che vi sia una radice comune, una causa non rimossa che trascende i singoli “orticelli”. Per fare la storia delle professioni occorre partire proprio dagli avvocati, non solo per la primogenitura della regolamentazione alla quale si sono richiamati tutti gli ordini professionali istituiti successivamente, ma perché il mercato, per essere tale, ha bisogno del diritto. Mercato e Diritto sono “inscindibilmente legati: nascono, si sviluppano e muoiono insieme”. La professione forense, quindi, per la “strategicità” e per la sua interferenza con la giustizia, servizio essenziale per un società che voglia dirsi civile, costituisce l’emblema, la metafora ideale per leggere le strutturali inefficienze del Paese». Si potrebbe andare avanti nella lettura di questo testo, che ricorda come sono nati gli ordini e perché siamo arrivati a questo punto di dibattito. Con questo disegno di legge e, in particolare, con l’articolo 10 e il suo secondo comma, che con l’emendamento 10.202 intendiamo sopprimere, si va esattamente nella direzione dirigistica di una legge che muove da un mercato costituito da tanti attori e, siccome la torta continua a rimanere quella (anzi, la concorrenza arriva dall’estero, perché – come ricordavo prima – in realtà ci si rivolge all’avvocatura di altri Paesi dell’Unione europea), per continuare a mantenere questo orticello, lo ingabbia ulteriormente a tutela di chi è già dentro questo mercato, ovviamente a svantaggio di quelli che invece ne sono fuori. L’intervento è di tipo dirigista: se questa è la torta, continuate a dividerla tra di voi, e che non intervenga qualcuno di nuovo a sottrarre delle fette di torta. Altro poteva essere un intervento di tipo liberale e liberista, quindi non nel senso di legge della giungla, ma di legge del mercato, in cui chi è in grado di sapersi conquistare la propria clientela e di portare avanti la propria attività professionale deve poterlo fare. L’articolo 10 è quello che dice che l’avvocato deve essere continuamente formato per poter esercitare la propria attività professionale, ma il comma 2 smentisce il precedente – ed è per questo che ne chiediamo l’abrogazione – perché incomincia a elencare una serie di figure che sono esentate. Credo che sia utile ricordare chi volete esentare dall’obbligo di formazione; soprattutto, dovrete anche rendere conto del perché volete farlo. In particolar modo, ricordo l’esenzione per i membri del Parlamento nazionale ed europeo; qual è il motivo? Forse perché noi parlamentari facciamo in questa sede le leggi e siamo quindi formati continuamente a fare l’attività di avvocato? Non credo. Si parla poi dei consiglieri regionali. Per quale motivo i consiglieri regionali non debbono procedere ad una formazione continua per poter assistere i clienti e il loro interesse, come dice il comma 1? Si menzionano i presidenti di provincia e gli assessori provinciali. Quale formazione hanno gli assessori provinciali o i consiglieri provinciali nell’ottica dell’interesse dei loro clienti? Il fatto di essere assessori provinciali fa sì che siano formati a fare gli avvocati? Ma ancora: sono esentati i sindaci e gli assessori di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti. Ciò significa che tale cariche sono equivalenti ad una formazione continua, nell’ottica dell’interesse dei clienti e – come è stato aggiunto con l’emendamento poco fa accolto dal relatore – dell’amministrazione della giustizia? L’avere esentato queste figure, come se la loro attività conferisse loro i titoli di una formazione continua, è un modo evidentemente per continuare a creare meccanismi in base ai quali chi è già dentro continua a starci e chi ne è invece fuori deve incontrare ulteriori difficoltà e barriere di accesso. Per tutti questi motivi, dichiaro che il mio voto sarà favorevole.

[…]

LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO (PdL). Signore e signori del Senato, intervengo su questo emendamento e poi non interverrò più. (Commenti dal Gruppo PD). Intanto vorrei cominciare il mio intervento dalle affermazioni dell’illustre senatore Livi Bacci, che – a mio parere – ha dimostrato in questa sede una intima contraddizione con quanto ha sostenuto più volte, ripetutamente e pervicacemente, la minoranza, la cui convinzione è che nell’Aula del Senato vi sarebbe semplicemente una mortificazione del Senato perché si passerebbe soltanto unanimemente a votare provvedimenti decisi aliunde. Voglio far osservare al professor Livi Bacci, il quale forse non ha un interesse diretto nei confronti di questa normativa, che, al contrario, proprio quanto sta accadendo in questa sede in merito al disegno di legge in esame dimostra la vivacità e la funzione del Parlamento e, nel caso specifico, del Senato. Non si preoccupi il professor Livi Bacci. La votazione di questo disegno di legge durerà quanto dovrà durare, con un’attenzione particolare a quanto dice ciascuno di noi rispetto ad una norma molto dettagliata ed articolata, che ha aspetti – come ha sottolineato anche la senatrice Poretti o come dice giustamente il senatore Ichino – di grande rilevanza. Questo è il punto. Voi, al contrario, avete la convinzione – o molti di noi forse, ma certamente molti di voi – che in questa sede sia stato portato un testo che è stato mal abborracciato in Commissione. Quindi dovremmo – ahimè – mettere riparo a quello che ha fatto male la Commissione. Ammettiamolo pure, senatore Livi Bacci. La Commissione non ha lavorato abbastanza bene, e ce ne scusiamo – ho fatto parte del Comitato ristretto – e chiediamo a voi di correggerci, di invitarci ad una meditazione ulteriore, ad accettare o a rifiutare un emendamento. Questo per quanto riguarda la contraddizione che avevo rilevato nelle parole del senatore Livi Bacci. In ordine all’intervento della senatrice Poretti, la invito ad avere pazienza. Infatti, quando si scatena contro il comma 2 dell’articolo 10 e chiede perché devono essere esentati dalla formazione continua, per esempio, i parlamentari, le faccio presente che i parlamentari hanno una formazione continua anticipata perché, se fossero attenti, come sta attento il professor Livi Bacci, in questa sede creiamo le leggi prima ancora che siano pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. E a me sembra questo abbastanza sufficiente. Lo stesso può dirsi per i consiglieri regionali perché ci sono le legislazioni regionali. Lo stesso può dirsi per i parlamentari europei che, purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, producono una serie di normative europee che stanno a noi, qualche volta, come un giogo sul collo, col massimo rispetto per l’Unione europea. Per quanto riguarda invece i sindaci delle grandi città, abbia pazienza: essi si sono dedicati, per scelta evidentemente, ad un’attività di amministratori che è molto impegnativa: non si tratta, infatti, di tutti i sindaci, ma soltanto dei comuni di grande rilevanza. Allora, qui c’è un bilanciamento tra interesse della pubblica amministrazione e dei singoli: si è semplicemente detto che questi soggetti saranno esentati dalla formazione continua perché dovranno adempiere totalmente, con efficacia e dedizione, all’attività amministrativa politica. (Applausi dal Gruppo PdL).

[…]

2. – SULL’ESENZIONE DALL’OBBLIGO DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE PER GLI AVVOCATI CON CARICHE ELETTIVE

L’intervento che segue risponde a quello del Relatore, il quale ha giustificato l’esenzione dall’obbligo di aggiornamento professionale per gli avvocati con cariche elettive in Parlamento e negli enti locali col fatto che essi si aggiornerebbero automaticamente per il solo fatto di partecipare alla produzione delle norme giuridiche.

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, chiedo anche a lei, che appartiene al ceto forense, se ci stiamo prendendo in giro. Qualsiasi avvocato sa benissimo che l’aggiornamento professionale, nel campo dei servizi legali, consiste per il 95 per cento in un aggiornamento riferito alle novità giurisprudenziali e dottrinali e solo per il 5 per cento o anche meno sulle novità legislative. Quello che si chiede all’avvocato, e che è particolarmente oneroso per l’avvocato che vuole servire bene il proprio cliente, è conoscere tutte le novità giurisprudenziali, come l’ultima sentenza di Cassazione, magari non ancora pubblicata su una rivista e che, però, può servire per vincere la causa. La novità legislativa incide su questo onere di aggiornamento in misura minima, anche perché è molto più facile conoscere la nuova legge che non conoscere l’ultimo grido della giurisprudenza o della dottrina. Ora, se questa è la vera materia di cui stiamo parlando, in tema di aggiornamento professionale, veramente non riesco a capire come si possa sostenere decentemente che un assessore regionale o un consigliere regionale, come anche un parlamentare, si aggiornino sulla giurisprudenza e sulla dottrina per il solo fatto di sedere in un consiglio comunale o in un’Aula del Parlamento. È veramente una presa in giro di cui dobbiamo fare giustizia. Nessuno ci crede; è dunque evidente che le norme delle quali stiamo discutendo costituiscono soltanto una esenzione per la casta dei politici, rispetto a un onere di cui vogliamo caricare soprattutto i più giovani. Di fatto, quest’onere graverà soltanto su quelli che escono dall’università e sui loro primi quattro anni di professione. Poi, con l’acquisto della specializzazione essi ne saranno esentati, proprio quando invece incomincerebbero ad averne più bisogno. Questa è veramente una scelta che mi sembra non si possa decentemente giustificare in alcun modo. Per questo motivo, noi voteremo contro questo emendamento come contro l’intero articolo, se resta così com’è. (Applausi dal Gruppo PD).

PRESIDENTE. Senatore Ichino, la Presidenza l’ha ascoltata con interesse.

[…]

D’AMBROSIO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’AMBROSIO (PD). Signor Presidente, il problema non è costituito tanto dal disposto della lettera b) quanto dal fatto che per la formazione degli avvocati l’aggiornamento deve riguardare non solo le nuove leggi ma anche – come illustrato dal senatore Ichino poco fa – la dottrina e la giurisprudenza, nonché la circostanza di realizzare la formazione non soltanto nell’interesse del cliente bensì – come auspicava, anche se non ascoltato, il senatore Carofiglio – nell’interesse della giustizia. E sappiamo tutti che un buon avvocato fa ottimamente gli interessi della giustizia in generale. Quindi, il fatto che si lasci unicamente al Consiglio nazionale forense la possibilità di stabilire le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento, lasciando completamente fuori il Ministro della giustizia, l’università, cioè i professori di diritto, che dovrebbero essere i più interessati all’aggiornamento dottrinale, è inconcepibile. Non vengono ascoltati i professori, ma neppure il Consiglio superiore della magistratura, che comunque è l’organo in condizione di dare indicazioni relativamente a quanto riferito dai vari magistrati (che sono i due terzi dei componenti del Consiglio superiore della magistratura) sulle condizioni di preparazione per capire dove e su quali punti è opportuno indirizzare meglio la preparazione degli avvocati. A me sembra davvero eccessivo lasciare esclusivamente tutto questo al Consiglio nazionale forense anziché coinvolgere soggetti importanti come i professori universitari, il Consiglio superiore della magistratura e gli stessi organi dell’ordine, non solo quelli nazionali ma anche quelli territoriali che forse hanno qualcosa da dire. Mi sembra pertanto opportuno accogliere l’emendamento in esame che estende la possibilità di fare il meglio per l’aggiornamento professionale degli avvocati, vale a dire sentire non solo il Ministro di giustizia ma anche i professori universitari, il Consiglio superiore della magistrature, e gli altri soggetti indicati nell’emendamento. Insisto pertanto per la votazione. […]

3. – SULLA QUESTIONE SE SIA OPPORTUNO CHE SI RIAPRA L’ESAME DEL DISEGNO DI LEGGE IN COMMISSIONE GIUSTIZIA

GASPARRI (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPARRI (PdL). Signor Presidente, intervengo solo per confermare che in Conferenza dei Capigruppo su questo provvedimento, che come un fiume carsico appare e scompare dall’ordine del giorno dell’Assemblea e riguarda una riforma importante quale quella della professione forense, si era convenuto – e credo che il senatore Zanda lo ricordi bene, e del resto il suo dire di adesso non contraddice – di portarlo in Aula fino all’approvazione, nel senso che non sarebbe stato più tolto dall’ordine del giorno, né inframmezzato da altri provvedimenti. Ciò, anche per una serietà del Senato nei confronti di un mondo professionale che, quale che sarà la decisione del testo, vuol sapere quali sono le decisioni, e questo mi sembra legittimo. Si convenne di non procedere ad un contingentamento rigido dei tempi perché c’era la volontà di arrivare alla conclusione. Non abbiamo stabilito, in verità, se questo avvenisse oggi, domani o martedì ad un’ora stabilita; se si ritiene di svolgere domani, al termine della seduta antimeridiana, una valutazione sulla tempistica, il nostro Gruppo non ha alcunché in contrario, purché si mantenga quella decisione che assumemmo, e che non riguarda solo i rapporti tra di noi, ma l’immagine del Senato e la sua responsabilità di arrivare ad una decisione su una materia che non si può dire non sia stata approfondita in Commissione. Abbiamo infatti preso e lasciato il provvedimento in Aula prima e dopo l’estate, e non può essere considerato un intermezzo tra alcuni provvedimenti ed altri. Spesso ci si lamenta dei decreti, dei tempi contingentati e dei voti di fiducia: questa volta stiamo discutendo un provvedimento che è frutto delle iniziative parlamentari senza voler soffocare la discussione; però il provvedimento deve anche avere un punto di approdo e mi auguro che domani, al termine della seduta antimeridiana, si possa definire un percorso. (Applausi dal Gruppo PdL).

ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, all’inizio di questa discussione sono intervenuto per sottolineare che sì, è vero, il disegno di legge è di iniziativa parlamentare, ma politicamente questo provvedimento nasce da un atto politico del Ministro della giustizia, compiuto al Congresso nazionale forense di Bologna di due anni fa. A nostro avviso, le difficoltà che sta incontrando questa riforma in sede di discussione in Parlamento non sono casuali, ma nascono da un difetto di impostazione: l’avere cioè assunto come unici interlocutori del potere legislativo nell’impostazione della riforma gli avvocati, quando invece la disciplina della professione ha come principale referente, come principale soggetto interessato l’amministrazione della giustizia, e poi gli utenti, le imprese, i cittadini, i consumatori, i quali sono stati invece tenuti totalmente fuori dall’itinerario di formazione di questo testo legislativo; tanto che, per esempio, elementari principi di tutela della concorrenza sono totalmente obliterati, pretermessi. Chiedevo stamattina e torno a chiedere che, prima ancora che si riunisca la Conferenza dei Capigruppo, il Governo ci dica se rispetto a quella impostazione iniziale c’è una modifica nel suo intendimento riguardo a questa riforma oppure no; perché da questo e non da scelte di contingentamento dei tempi del dibattito dipende la sorte di questa riforma.

PRESIDENTE. Senatore Ichino, sta al Governo decidere se dare una risposta alla sua osservazione, non compete a questa Presidenza. Mi auguro che vi possano essere gli opportuni chiarimenti. Per quanto mi riguarda, confermerei la mia iniziativa di convocare la Conferenza dei Capigruppo, aderendo alla proposta del presidente Zanda di convocarla al termine dei lavori della seduta antimeridiana di domani, in maniera tale da avere un quadro definito, nella certezza di venire incontro alla volontà di tutti i Capigruppo quando hanno deciso di riportare il testo in Aula per arrivare al voto finale. È evidente che per portare il provvedimento al voto finale ci dobbiamo dare delle regole e stabilire un percorso, senza minimamente limitarci a strozzare una discussione che sino ad oggi è stata amplissima, approfondita ed articolata e così sarà anche qualora dovessimo armonizzare i tempi. Invito il relatore e il rappresentante del Governo a pronunziarsi sugli emendamenti presentati all’articolo 11.

[…]

4. – SULLA QUESTIONE DELL’INDEROGABILITA’ DELLE TARIFFE MINIME E IL DIVIETO DEL PATTO DI QUOTA-LITE

CARUSO (PdL). Signor Presidente, l’articolo 12 del disegno di legge si occupa delle tariffe professionali, cioè di una di quelle questioni che, come non mai, sono state solo oggetto di mistificazione. La massima parte degli avvocati, a quattro anni di distanza dai provvedimenti del Governo di centrosinistra sul tema, mostrano ancora di non aver digerito la novità della rimozione dei minimi tariffari dalle loro tariffe e dell’abrogazione del divieto dei patti di quota lite. Dall’altra parte, continuano ad affaticarsi sulla questione almeno due importanti centri di opinione, vale a dire, in primo luogo, gli imprenditori, e per essi la loro massima associazione, cioè Confindustria, e, in secondo luogo, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato. Gli imprenditori hanno sempre avuto, nei confronti dei professionisti, sentimenti assolutamente opposti e contrastanti, al limite del surreale: li hanno in odio quando sono loro fornitori, detentori di saperi di cui non è possibile fare a meno, e quindi quando chiedono, come tutti i fornitori, il controvalore delle prestazioni che rendono (insomma, li hanno in odio quando presentano parcelle alle loro imprese); viceversa, li amano molto tutte le volte che tentano – ormai il fatto è risalente e ricorrente – di appropriarsi dei loro saperi per farne prodotto d’impresa, oltre che per impossessarsi della loro indipendenza. Sto parlando delle risalenti e ciclicamente ricorrenti proposte di aprire l’esercizio dell’attività professionale (dell’avvocato, in questo caso) alle società di capitali e quindi di fornire prodotto nuovo a chi vuol fare impresa, ovvero nuovo business a chi già fa impresa: alle grandi società, ai grandi gruppi, con il non celato fine – tante volte – di rivitalizzarne conti tendenti a divenire traballanti quando generati dalle produzioni tradizionali. I Governi di centrosinistra sono stati sensibili alle suggestioni di vario genere a sostegno di tale idea. Lo sbarramento posto in essere dai professionisti finora ha retto. In futuro vedremo che succederà. Dunque, gli imprenditori da una parte e, dall’altra, l’autorevolissima Autorità garante per la concorrenza e per il mercato e, per essa, il relativo presidente, che non solo è persona assai piacevole (è stato un privilegio averne avuta conoscenza personale), ma che autorevolissimo lo è anche di suo. L’Autorità si è infatti schierata senza esitazione, su uno dei punti di vista comunitari in argomento, nella direzione di considerare le tariffe obbligatorie come causa di diniego di opportunità e di limitazione della concorrenza. Su uno solo dei coesistenti punti di vista comunitari – lo ripeto – perché è ormai palese che, in sede di governo europeo, è con grande disinvoltura che si giustificano plurime e discordanti opinioni tutte le volte che le questioni toccano più interessi molteplici. Ebbene, ecco dunque il comune denominatore argomentativo impiegato sia dagli imprenditori, sia dall’Autorità garante, che condusse l’onorevole Bersani, allora Ministro dell’industria del Governo Prodi, a “lenzuolare” (giusto per usare il neologismo allo stesso caro) l’obbligatorietà dei minimi tariffari abrogandola ed affermando che in tale maniera si sarebbero aperte alla concorrenza le prestazioni professionali, a tutto vantaggio dei consumatori. Minimi tariffari abrogati, dunque, e rimozione del divieto del patto di quota lite: un vero toccasana – a loro opinione – per la collettività dei consumatori. Non è affatto così e si tratta – come dicevo – di una mistificazione non ulteriormente sopportabile. In sé, nel caso degli avvocati, è semplicemente surreale parlare di mancanza di concorrenza quando lavorano in Italia (o cercano di lavorare) oltre 230.000 soggetti che quotidianamente si misurano fra loro: un numero enorme (il mercato ne richiederebbe meno della metà) che si è determinato nel tempo (il contatore non accenna, peraltro, ad arrestarsi) per le ragioni che ho più volte esposto anche in quest’Aula e che sono (almeno in parte) ricadenti proprio su responsabilità attribuibili al mondo delle imprese. Ma al di là di ciò e accantonato quindi il risibile quanto suggestivo argomento della mancanza di concorrenza e del relativo danno ai consumatori, il punto è visibilmente un altro. Premesso che il principale problema per moltissimi dei 230.000 avvocati italiani purtroppo non è oggigiorno quello di non avere tariffe minime ma, semmai, quello di vedersele pagate, le dette tariffe, c’è da chiedersi se alla fine la riforma bersaniana abbia giovato a qualcuno. Visto che il tasso di concorrenza in favore dei consumatori non è variato e che gli avvocati hanno, come visto, altri problemi (primo fra tutti quello di reperire sufficiente quantità di lavoro), c’è da chiedersi chi abbia tratto vantaggio da tutto questo. Ciò si scopre facilmente, signor Presidente, perché in effetti un vantaggio c’è ed anche di grande misura; un vantaggio enorme che va in danno dei professionisti e in danno, ancorché indiretto, dei consumatori. Darò lettura di una lettera di poche righe presa a caso, fra le tante che mi sono state fornite da avvocati, in quanto tutte uguali nella sostanza. Si tratta di una lettera scritta da una grandissima banca nazionale, che ormai si potrebbe definire un “concentrato” di banche, e diretta ad un’avvocatessa – permettetemi di ometterne nome e città di residenza – che opera nel Nord-Est, che non conosco ed a cui ho parlato per telefono; una donna giovane che svolge la professione come tanti. Si tratta di una causa avviata dal curatore di un fallimento in cui è chiesto alla banca stessa di restituire 365.000 euro, oltre agli interessi, in sede di revocatoria. Ecco cosa scrive la banca: «Gentile avvocato, faccio seguito alle conversazioni intercorse e con la presente trasmettiamo atto di citazione notificato alla nostra banca. Le confermiamo la nostra disponibilità a conferire l’incarico per la difesa giudiziale di (…). Detto incarico è tuttavia condizionato all’applicazione, per l’attività che sarà da lei prestata, della convenzione già in essere con la nostra capogruppo, tenuto conto del valore della controversia che quantifichiamo convenzionalmente in euro 42.000», e non – aggiungo io – nei 365.000 euro rivendicati in sede di citazione. Sono componente in questa legislatura della Commissione antimafia e, da quelle parti, la vicenda narrata è riassunta in un solo vocabolo che corrisponde ad una grave, quanto diffusa condotta illecita. L’avvocatessa, giusto per la cronaca, ha accettato l’incarico e l’Associazione degli avvocati di cui fa parte dovrebbe, quindi, senz’altro espellerla, quantomeno a sentire le lezioni di legalità che ci vengono di recente impartite. Non avverrà senz’altro (per fortuna), ma è del tutto chiaro che si tratta di situazioni non oltre tollerabili a cui occorre porre rimedio, intanto legislativo. Confido nel parere favorevole del relatore e del Governo sull’emendamento 12.202 che affronta il tema da molteplici punti di vista, compreso quello della incondizionabilità dell’incarico dato all’avvocato, e confido che l’Aula voti lo stesso e la restante parte dell’articolo 12, nella costruzione che ci è giunta dal lavoro svolto dalla Commissione giustizia con l’approvazione (mi riferisco in particolare al comma 5) degli emendamenti lì proposti. Presidente, non illustrerò gli altri emendamenti che ho presentato; annuncio anzi il ritiro degli emendamenti 12.200, 12.205 e 12.214. Le chiedo, tuttavia, di prendere nota, signor Presidente, con riferimento all’emendamento 12.232, che, qualora dovesse essere approvato l’emendamento 12.202, lo stesso dovrà essere integrato con il riferimento alle eccezioni di unità di cui ai commi 1,1-bis, 6, 6 bis, eccetera. Ciò, nel sol caso in cui venga approvato l’emendamento 12.202.

[…]

PORETTI (PD). Signor Presidente, credo che l’articolo 12 sia importante. Si tratta di un articolo sulle tariffe professionali, che ancora una volta enuncia un principio e poi, andando avanti nella lettura dei commi, lo smonta. Al comma 1 leggiamo infatti: «Il compenso professionale è determinato tra cliente e avvocato in base alla natura, al valore e alla complessità della controversia e al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, nel rispetto del principio di libera determinazione di cui all’articolo 2233 del codice civile, fermi peraltro i limiti di cui al comma 5. Dopo la virgola, inizia la demolizione del principio. Infatti, dopo questo principio enunciato in cui appare che il cliente e l’avvocato si mettano a tavolino e decidano che tipo di compenso e di accordo prevedere, si va a smontare proprio il principio della libera concorrenza e della possibilità di prevedere un accordo tra il libero professionista e il proprio cliente. Si va infatti a fissare per legge il fatto che esistono degli onorari minimi, che sono inderogabili e vincolanti, mentre poi si prevede che, se qualcosa può essere derogato, sono proprio i limiti massimi tariffari; si inverte e si capovolge quello che era stato il testo della riforma Bersani, citata più volte, e le indicazioni che erano arrivate non soltanto dall’Antitrust italiana, ma anche dalla Commissione europea. Cito poche parole della comunicazione della Commissione europea: «Prezzi fissi o prezzi minimi sono gli strumenti normativi atti ad avere gli effetti più dannosi sulla concorrenza, in quanto smantellano o riducono seriamente i vantaggi che i consumatori possono derivare dai mercati concorrenziali». Il discorso sulle tariffe è quello che più interessa il cittadino e l’utente dell’avvocato; è altrettanto evidente che l’articolo 12 del provvedimento in esame va nella direzione opposta: si tratta, infatti, di un testo fatto ad hoc, su ordinazione, che non tiene conto delle esigenze della concorrenza e del cittadino che si rivolge all’avvocato, ma tutela soltanto le esigenze degli avvocati, peraltro non in generale ma solo dei liberi professionisti già affermati e pertanto non dei giovani che tentano di entrare nel mercato dei liberi professionisti e quindi degli avvocati. L’Antitrust, che si è espressa molto duramente e in modo preciso su alcuni articoli del disegno di legge in esame, prende in esame anche l’articolo 12 (noi presenteremo un ordine del giorno chiedendo che il Governo ponga attenzione proprio al parere espresso dall’Antitrust). Ad avviso dell’Autorità, le tariffe fisse e minime, come più volte evidenziato a livello nazionale e comunitario, non garantiscono la qualità della prestazione, ma anzi possono disincentivare l’erogazione di una prestazione adeguata: la sicurezza offerta dalla protezione di una tariffa fissa o minima certamente non invoglia il professionista a tenere comportamenti virtuosi. Secondo i consolidati principi antitrust, le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono agli iscritti all’albo di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione. A protezione del cliente e, in particolar modo, delle persone fisiche e delle piccole imprese, potrebbe trovare giustificazione il mantenimento soltanto delle tariffe massime, con riferimento a prestazioni aventi carattere seriale e di contenuto non particolarmente complesso. Infine, occorre osservare che l’affermazione del decoro quale parametro per determinare il compenso non deve essere suscettibile di prestarsi ad un uso fuorviante da parte degli ordini e divenire un criterio di controllo sui compensi. L’Autorità osserva che il decoro è un concetto di valore etico che può essere utilizzato quale principio generale dell’attività professionale, ma non come parametro economico di determinazione del compenso, in quanto il rispetto del decoro potrebbe facilmente reintrodurre l’inderogabilità dei minimi tariffari (esattamente quello che si propone con la norma in esame): il compenso decoroso sarebbe, in conclusione, quello che rispetta la tariffa minima. La criticità della norma è aggravata dagli elevati margini di indeterminatezza che tipicamente accompagnano l’utilizzo di clausole generali, la cui concreta definizione sarebbe riservata, in via principale e pressoché esclusiva, agli organi dell’ordine professionale. L’Autorità ricorda che l’articolo 2233 del codice civile, pure richiamato nel comma 1 dell’articolo 12 del disegno di legge in esame, contiene una disposizione che si rivolge esclusivamente ai privati e non attribuisce all’ordine alcun potere di valutazione sulla conformità del compenso professionale alla nozione di decoro. L’articolo 12 del disegno di legge in esame prevede inoltre, al comma 6, la facoltà di concordare, tra avvocato e cliente, un compenso ulteriore rispetto a quello tariffario in caso di conciliazione della lite o di esito positivo della controversia fermi i limiti del codice deontologico. A tal riguardo si noti che il richiamo alla “tariffa”, quale parametro di riferimento al fine di determinare un “compenso ulteriore” da riconoscere all’avvocato, risulta in contrasto con i sopra richiamati principi antitrust di libera determinazione del compenso, nonché con il citato decreto-legge n. 223 del 2006, che ha abolito il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Con la riforma Bersani sull’abolizione dei minimi tariffari e sull’inserimento della possibilità di contrattazione di prezzi e preventivi, si era quasi creduto che finalmente qualcosa cominciasse a cambiare. Si sperava che finalmente si aprissero spazi per l’utente verso una maggior trasparenza in merito ai costi e agli accordi con il proprio legale. Il preventivo scritto, in ragione della normativa introdotta, forniva al cliente un valido strumento di programmazione dei costi e di bilanciamento con i relativi benefici, prima di affrontare un’azione giudiziaria, soprattutto se ciò poteva esser effettuato in deroga ai minimi tariffari. Con la proposta contenuta invece all’articolo 12 del disegno di legge in esame, si vuole far regredire, per non dire riazzerare, quanto si era fatto alla condizione di prima, in cui, sempre in modo oscuro e paternalistico, chi affronta un giudizio non sa mai quale parcella aspettarsi dal legale. Il sistema delle tariffe, se non derogabile nei minimi, si presta infatti ad essere uno strumento di ricatto da parte del professionista, che ha grande alea e discrezionalità su quanto alla fine fatturare all’assistito. Occorre invece creare meccanismi di trasparenza che consentano a chi intraprende un’azione di forfetizzare grosso modo i costi della stessa, anche non modificando l’attuale possibilità – introdotta nella passata legislatura – di legare agli esiti della procedura giudiziaria i costi della stessa. Al di là di quanto indicato negli emendamenti che saranno esaminati di volta in volta, imporre un prezzo uguale per prestazioni qualitativamente differenti, tenuto conto che differenti sono i professionisti che offrono la propria prestazione, dovrebbe essere rifiutato da qualsiasi professionista serio. In primis dovrebbero ribellarsi proprio gli avvocati che si trovano costretti in gabbie tariffarie particolarmente strette sia rispetto ai minimi che ai massimi. Certo, poi i massimi per assurdo si possono derogare mentre per i minimi ciò non è possibile. Legislatura 16º – Aula – Resoconto stenografico della seduta pomeridiana n. 442 del 20/10/2010.

[…]

ICHINO (PD). Signor Presidente, intervengo per illustrare gli emendamenti 12.211 e 12.226. Quanto all’emendamento 12.211 (a cui chiedo di poter aggiungere la firma), osservo che il miglior commento su di esso è senz’altro costituito dall’intervento del ministro della giustizia Alfano al convegno Ambrosetti di Cernobbio dei primi di settembre. In quell’occasione il ministro Alfano, davanti a una platea qualificatissima e alla stampa internazionale, ha dichiarato che non intendeva reintrodurre la regola dei minimi inderogabili nelle tariffe relative alle libere professioni. Ha detto ciò non in riferimento a una sollecitazione generica, ma di fronte a una domanda che gli veniva rivolta dall’avvocato Maurizio de Tilla, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura. Quindi non c’è dubbio che il Ministro abbia inteso riferirsi anche alla riforma che è all’esame del Senato in questo momento. A questo punto io dico: non vi è niente di disdicevole nel fatto che il Governo possa esprimere un parere negativo su una parte di un disegno di legge di iniziativa parlamentare sostenuto dalla maggioranza; vuol dire che in questo caso – e ovviamente solo in questo – il Governo avrà il nostro pieno appoggio. Su questo punto occorre però fare chiarezza e quindi chiedo che il Governo dica chiaramente, in questa sede e adesso (non in un altro momento), quali sono i suoi intendimenti riguardo a questa disposizione, che ha un valore cruciale e direi in qualche modo emblematico in riferimento all’intera riforma. Forse disdicevole sarebbe semmai che il Governo tacesse su questo punto, come ha fatto stamattina di fronte a una mia prima sollecitazione. Ripeto: occorre chiarezza. Se il ministro Alfano a Cernobbio ha detto una cosa e adesso ne pensa un’altra, che lo dica: anche in questo non ci sarebbe niente di male. Quello che non è ammissibile è che su un punto di questa importanza ci sia un grave difetto di chiarezza, un atteggiamento furbesco e doppio. Detto questo, io credo che avesse pienamente ragione il ministro Alfano nel prendere quella posizione. In realtà non è affatto vero ciò che si dice comunemente, soprattutto da parte di associazioni e organismi interessati alla reintroduzione dei minimi inderogabili nel nostro ordinamento. Non è vero che la regola dell’inderogabilità dei minimi avvantaggia soltanto le grandi imprese o le banche. Intendiamoci, se anche fosse vero che se ne avvantaggiano le grandi imprese, in questo non vedrei niente di male, dal momento che è noto che in Italia le imprese sono penalizzate rispetto alle loro concorrenti internazionali per un più alto costo dei servizi – e tra questi c’è anche il servizio legale – rispetto a quanto accade negli altri Paesi e questo accade proprio per un difetto di concorrenza nel corrispondente mercato italiano. Quindi, non ci sarebbe proprio motivo di rammaricarsi se quella piccola rendita generata dalla limitazione della concorrenza venisse abolita a vantaggio delle imprese. Il punto però è che in realtà a soffrirne è anche l’uomo della strada, è anche la povera gente. A questo proposito, vorrei raccontarvi molto brevemente una mia esperienza personale vissuta in qualità di responsabile del coordinamento dei servizi legali della Camera del lavoro di Milano, in un’epoca in cui la regola dell’inderogabilità dei minimi era in vigore. La Camera del lavoro di Milano stabilì in modo molto esplicito un sistema di remunerazione dei propri legali, di quelli cioè che operavano in collegamento con la stessa Camera del lavoro, in cui sostanzialmente si prevedeva un acconto molto ridotto, eravamo negli anni ’70 e si chiedevano 20.000 lire per l’inizio della pratica, e poi si chiedeva al lavoratore di destinare a remunerare l’avvocato il 5 per cento di quanto eventualmente recuperato con la vittoria in giudizio se il giudice non avesse provveduto a condannare la controparte alle spese: era quello che si chiama il patto di quota lite. Può piacere o non piacere, ma è un fatto che non si poteva fare altrimenti: o quel servizio veniva organizzato in questo modo, oppure gli operai non avrebbero potuto permettersi di avvalersi dell’assistenza. Pubblicammo apertamente questa regolamentazione e poco dopo venni convocato dal presidente del consiglio dell’ordine, che era allora Giuseppe Prisco, il vicepresidente dell’Inter, il quale mi disse: «Caro Ichino, non si può fare, la disciplina della materia lo vieta»; io gli risposi: «Metteteci tutti sotto procedimento disciplinare; voglio farne una battaglia fino ad arrivare davanti alla Corte costituzionale, perché alla Camera del Lavoro o facciamo in questo modo oppure i servizi legali agli operai non li possiamo offrire in termini realmente accessibili a tutti». Prisco mi congedò dicendo: «Con voi milanisti non si può ragionare». Il seguito della vicenda fu che, avendone Prisco discusso in seno al Consiglio dell’Ordine, informalmente decisero di lasciar correre, con la raccomandazione di non dire troppo in giro che le cose funzionavano in quel modo. Noi non accogliemmo neanche quella raccomandazione, continuammo a farlo alla luce del sole, con il regolamento affisso ben in vista nei locali degli uffici-vertenze; però era una violazione evidente della regola allora vigente sull’inderogabilità dei minimi e del divieto del patto di quota lite. Allora cosa vogliamo fare? Vogliamo davvero tornare al principio del «si fa ma non si dice»? Vogliamo davvero tornare ad un regime in cui il lavoratore che deve recuperare 100 o 1.000 euro deve sborsare per la causa un minimo che comunque rende impraticabile l’azione legale? Di questo si tratta; e badate che lo stesso discorso vale anche per il divieto di patto di quota lite: per quel tipo di cause, che sovente hanno un valore molto vicino ai minimi stessi delle tariffe forensi, è l’unico modo in cui il servizio legale può essere davvero offerto a tutti.
 Il divieto del patto di quota lite è ancora più impraticabile nel momento in cui si introduce davvero nel nostro sistema la class action. Tutti sanno che quest’ultima non può funzionare se non si consente allo studio legale che la promuove di raccogliere adesioni in gran numero all’iniziativa giudiziaria, sulla base di un patto di quota lite. Allora come la mettiamo? Vogliamo la class action da una parte, ma rifiutiamo la condizione indispensabile per la praticabilità della class action, dall’altra parte? Su queste questioni non dovete rispondere soltanto alla parte vecchia dell’avvocatura, quella che difende ancora il vecchio modo d’essere della professione forense in Italia; dovete rispondere anche alla parte nuova, ai giovani che guardano alle prospettive future; e dovete rispondere all’intero Paese. Anche limitando i vostri orizzonti all’ambito dell’avvocatura, voi non potete proporre una difesa della sola sua parte vecchia – che comprensibilmente difende vecchie rendite, piccole o grandi che siano – e poi, invece, legare le mani dietro la schiena alla parte più dinamica dell’avvocatura italiana, che vorrebbe competere sul piano internazionale con gli studi delle grandi legal firms americane, canadesi, britanniche. Ve lo immaginate uno studio legale italiano che prova a offrire i propri servizi sulla piazza di Londra o di Chicago dovendo rispettare questa vostra legge, quindi non potendo raccogliere capitali nel mercato azionario per gli investimenti necessari, non potendo di fatto promuovere una class action perché il divieto del patto di quota-lite non lo consente, non potendo neppure informare i potenziali clienti della propria esistenza per via del divieto della pubblicità? Mentre da una parte difendete le vecchie rendite, dall’altra impedite agli avvocati italiani di competere sul piano internazionale, vietando loro di dotarsi degli strumenti necessari per confrontarsi ad armi pari con i concorrenti. Gli studi di Londra e di Chicago, però, sono già venuti da noi, stanno già incominciando a prendersi il meglio del nostro mercato dei servizi legali, senza certo render conto al nostro Consiglio Nazionale Forense sul come hanno reperito i capitali necessari, quali tariffe applicano ai loro clienti, con quale tipo di contratto ingaggiano i collaboratori e così via.
Con questo disegno di legge state facendo un’operazione regressiva, che non va nell’interesse del Paese, ma non va neppure, a ben vedere, nell’interesse della stessa avvocatura. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

MUGNAI (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MUGNAI (PdL). Signor Presidente, facendo specifico riferimento ad un emendamento illustrato trattenendosi lungamente dal professor Ichino, mi sembra giusto fare chiarezza su uno degli aspetti più delicati del tema che stiamo trattando. Intanto, vi è da ricordare – e questo se vogliamo è il paradigma all’interno del quale va inserito il ragionamento che quest’Aula è chiamata a fare – che l’obbligazione del professionista è obbligazione di mezzi e non di risultato, cosa che viceversa verrebbe completamente meno, aderendo alla tesi espressa in particolare dal professor Ichino, che ha delle professioni ordinamentali una concezione molto particolare, sotto il profilo del patto di quota lite. Debbo peraltro far presente due aspetti che, a sommesso avviso di chi parla, sembrano tutt’altro che trascurabili. L’esempio fatto dal professor Ichino è obiettivamente inconferente. Le ragioni sono due. La prima è che il processo del lavoro è a costo zero, quindi non vi è alcuna necessità di versare fondi spese. La seconda è che se la domanda avanzata dal lavoratore è fondata, in virtù del principio della soccombenza processuale, vi è la condanna alle spese. Il lavoratore, professor Ichino, proprio per quel rispetto alla magistratura che costantemente, anche dalla sua parte politica, viene invocato, non vedo di cosa potrebbe dolersi nel momento stesso in cui la sua domanda, giudicata dalla magistratura infondata, venisse respinta per i relativi costi della procedura. Quindi l’esempio da lei fatto relativamente all’esperienza della camera del lavoro di Milano mi pare inconferente. L’altro aspetto che vorrei segnalare, perché mi pare un po’ contraddittorio, è il seguente. All’interno di questa legge, soprattutto da parte di alcuni senatori del Partito Democratico, si tende ad inserire delle norme sostanzialmente di tipo protezionistico di posizioni deboli, vuoi dei praticanti avvocati, vuoi dei giovani avvocati o quant’altro. Ma lei, qualche istante fa, parlando di una parte più dinamica dell’avvocatura, che non si capisce bene quale sia, visto che tutte le componenti dell’avvocatura si sono riconosciute in un testo che già significativamente stiamo modificando e abbiamo modificato in Commissione, ha citato proprio quegli esempi che vanno nella direzione esattamente opposta rispetto a quella indicata dagli emendamenti proposti dai suoi colleghi. Pensiamo soltanto alla gratuità dei corsi di formazione. I grandi studi nordamericani, anglosassoni o di buona parte dell’Europa, i colleghi, giovani o anziani, con la scatolina di cartone li mettono alla porta dalla sera alla mattina. Mi sembra dunque contraddittorio. Non c’è garanzia di sorta, e glielo dico per esperienze professionali anche dirette. Credo che anche da questo punto di vista l’atteggiamento sia strumentale e contraddittorio. (Applausi del senatore Benedetti Valentini).

 […]

MORANDO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORANDO (PD). Signor Presidente, vorrei approfittare di questa dichiarazione di voto per sollevare un problema che riguarda la qualità del confronto tra maggioranza, opposizione e Governo che stiamo sviluppando a proposito di questo disegno di legge. Signor Presidente, il professor Ichino poco fa nel suo intervento ha sollevato un problema preciso rivolgendosi al Governo. Ha citato una circostanza precisa: il recente convegno di Cernobbio, nel quale, non qualcuno che passava lì per caso, ma il Ministro competente, cioè il Ministro della giustizia, ha sostenuto, di fronte a un uditorio qualificato e di livello internazionale, in presenza di un dibattito sopra la reintroduzione o meno delle tariffe minime, una posizione molto precisa di cui tutti gli organi di informazione italiana hanno dato notizia. Il Ministro ha detto: mi opporrò alla reintroduzione della norma relativa alle tariffe minime. Non voglio adesso discutere sopra il fondamento positivo o negativo, a mio giudizio, di questa posizione. Voglio sottolineare che, per la qualità del confronto pubblico, la presa di posizione del Ministro della giustizia su un tema tanto rilevante ha naturalmente un notevole peso. Questa posizione è stata richiamata dal senatore Ichino nel corso del nostro dibattito al fine di ottenere un chiarimento da parte del Governo, qui rappresentato autorevolmente dal sottosegretario Alberti Casellati. Il professor Ichino richiama il punto e il Governo, signor Presidente, non sente la necessità, nel corso dell’esposizione del parere, di replicare per enunciare una delle seguenti possibili posizioni. In primo luogo, si può ammettere che il Ministro in quella sede ha adottato quella posizione, ma che nel frattempo il Ministro e il Governo hanno cambiato idea e intendono essere favorevoli alla reintroduzione delle tariffe minime: è legittimo, ma va reso trasparente. Oppure: il Ministro e il Governo continuano a pensare quello che ha anticipato il Ministro a Cernobbio, ma prendono atto che la maggioranza ha qui in Senato un orientamento del tutto diverso, e ciò induce il Governo a pronunciarsi in modo difforme rispetto al relatore. Poi decida l’Aula del Senato se reintrodurre le tariffe minime, contrariamente a quello che dice il Ministro della giustizia. Una terza possibile posizione è la seguente: il Governo difende la posizione del Ministro, si rivolge alla sua maggioranza per ottenere un mutamento di parere del relatore di maggioranza. In ogni caso, signor Presidente, per la qualità del nostro confronto in questa sede, non può certo accadere che un senatore della Repubblica sollevi un problema, citando puntualmente una posizione presa dal Ministro, ed il rappresentante del Governo di quello stesso Ministero finga di non avere ascoltato, perché questo rende del tutto inutile il confronto che stiamo facendo. Si rischia infatti che poi accada quello di cui tutti lamentiamo l’effetto e cioè che in questa sede non si dice nulla, poi magari si scopre che il Ministro conferma l’orientamento di Cernobbio e, quando il disegno di legge viene esaminato dalla Camera, lo fa valere, modificando il testo licenziato dal Senato. Di conseguenza, i cittadini italiani ricevono due danni, invece di uno, cioè l’approvazione di questa norma nel testo attuale, così come la maggioranza ce la vuole imporre. (Applausi del senatore Ichino). Mi auguro che la rappresentante del Governo voglia prendere la parola su questo punto per dire, banalmente, se la pensa come il Ministro e se egli ha cambiato idea, oppure non l’ha cambiata ma prende atto che la sua maggioranza ha un orientamento diverso da quello del Governo. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare la rappresentante del Governo.

ALBERTI CASELLATI, sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, gli emendamenti in esame non sono identici. Mentre la prima parte è identica, la seconda non lo è. Infatti, la seconda parte dell’emendamento 12.207 recita: «La misura degli onorari e dei rimborsi deve essere articolata in relazione al tipo di prestazione e al valore della pratica». Invece, la seconda parte dell’emendamento 12.208 è la seguente: «La misura degli onorari è articolata in relazione alle fasi processuali e al valore della pratica». Quindi, nel primo caso, si fa riferimento al tipo di prestazione, nell’altro caso, alle fasi processuali. […]

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Parlerò poi del silenzio del Governo. Innanzitutto vorrei rispondere al senatore…

PRESIDENTE. Il Governo ha già annunciato una risposta su questi temi, perché l’intervento del senatore Morando, in effetti, è stato svolto su un altro emendamento che riguardava altra materia. Invece l’emendamento in questione è proprio il 12.211. Chiedo pertanto al rappresentante del Governo se intende intervenire prima dello svolgimento delle dichiarazioni di voto.

ALBERTI CASELLATI, sottosegretario di Stato per la giustizia. Certo, Presidente. Francamente non sto rispondendo su sollecitazione del senatore Morando, perché è da un po’ che chiedo la parola per rispondere a quello che mi aveva chiesto il senatore Ichino. Non intendo sottrarmi ad alcuna responsabilità. Non ero a Cernobbio e non so che cosa sia stato detto dal Ministro ma, dopo la discussione generale, dove ognuno ha esposto le posizioni in ordine a questo provvedimento, nel rispondere il Governo ha aderito in toto a questo impianto. Per quello che riguarda oggi i pareri sugli emendamenti riferiti all’articolo 12, e mi assumo ovviamente la responsabilità di quello che affermo, condivido il testo che ripristina sia i minimi tariffari, sia il divieto del patto di quota lite. Lo dico perché abbiamo sempre sostenuto che queste sono da un lato misure a salvaguardia della dignità professionale e dall’altro misure di trasparenza a vantaggio del cittadino utente. Tutti sanno che dove – ad esempio in America – il patto di quota lite è stato applicato per parecchi anni questo ha dato luogo a sistemi di corruzione ed anche ad intese non troppo lecite e chiare tra avvocati. Noi vogliamo evitare tutto questo. Per tali motivi, non avendo ad oggi indirizzi diversi da parte del Ministro, rispetto all’impianto normativo di questo provvedimento, ho espresso il mio favore in ordine a questo articolo nelle sue varie esplicitazioni. (Applausi dal Gruppo PdL).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare ora in dichiarazione di voto il senatore Ichino.

ICHINO (PD). Questo è un giorno importante: la politica dell’annuncio, che ha caratterizzato questo Governo nei primi due anni e mezzo di legislatura, nei quali agli annunci non seguivano i fatti promessi, fa un salto di qualità. Oggi siamo arrivati alla politica dell’annuncio cui seguono fatti diametralmente opposti rispetto all’annuncio medesimo. (Applausi dal Gruppo PD). È un annuncio molto chiaro già il nome del partito maggiore di Governo: Popolo della Libertà; ora sarà bene integrarlo: Popolo della Libertà, salve le rendite per le libere professioni dove è politicamente conveniente difenderle. Non potete continuare a parlare della politica del Governo come di una politica che tende a collocare l’Italia in Europa e nel mondo, a rendere l’Italia un Paese capace di competere nell’arena internazionale. Il ministro Alfano voleva dire questo al seminario di Cernobbio, davanti alla stampa internazionale e ai protagonisti dell’economia globale, perché sapeva che la scelta di limitare la concorrenza stabilendo l’inderogabilità dei minimi è contro il parere dell’Antitrust, contro il parere e l’indicazione precisa dell’Unione europea; sapeva che probabilmente questa norma che ora qui in Parlamento state difendendo a spada tratta, sarebbe destinata a essere cassata dalla Corte di giustizia europea; difenderla a Cernobbio sarebbe stata una posizione impresentabile. Poi, però, in Parlamento, tirati per la giacca di qua o di là, tornate alla vecchia politica della difesa delle rendite e fate fare un passo indietro al Paese su questo terreno.
Prendiamo atto. Però – consentitemi di dirvelo – occorre che modifichiate la vostra tecnica dell’annuncio. Occorre, qualche volta, essere più prudenti negli annunci, pensarci due volte prima di parlare, se ci si riserva di fare poi il contrario.
Detto questo, vengo alle obiezioni del senatore Mugnai. La prima obiezione riguarda l’esempio che ho fatto in sede di illustrazione dell’emendamento 12.211; è un’obiezione che non calza. Dice Mugnai: il processo del lavoro è gratuito. Attenzione: il processo del lavoro è gratuito solo nel senso che l’imposta di bollo sugli atti giudiziari è azzerata, ma ciò non significa certo che gli avvocati che si occupano di diritto del lavoro non abbiano diritto di farsi pagare; non significa certo che le tariffe minime che state reintroducendo non si applichino nelle cause di lavoro. Se è questo ciò che vuol dire, senatore Mugnai, mi sembra che stia prendendo un grosso abbaglio, che stia dicendo una cosa non vera. Nelle cause di lavoro gli avvocati si fanno pagare eccome.
L’altra obiezione che il senatore Mugnai ha proposto contro il mio intervento su questo punto è quella secondo cui, poiché la prestazione dell’avvocato ha per oggetto un’obbligazione di mezzi e non di risultato, il compenso non può essere commisurato al risultato. Anche questo discorso non sta in piedi. I giuristi sanno bene che numerose prestazioni “di mezzi”, siano esse di lavoro subordinato o autonomo a carattere continuativo, possono essere retribuite con premi di produzione, con partecipazioni agli utili, cioè con forme di retribuzione che, pur riferite a prestazioni di mezzi, sono correlate al risultato della prestazione. Anche questa obiezione del senatore Mugnai, dunque, non regge.
A questo punto mi chiedo se davvero abbia un senso che con motivazioni così deboli, che non stanno in piedi, voi continuiate a difendere una disposizione che ci fa fare un pesante passo indietro rispetto al resto d’Europa e che, oltre tutto, ci pone in contrasto con precise disposizioni antitrust dell’ordinamento europeo e dell’ordinamento nazionale. (Applausi dal Gruppo PD).

LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO (PdL). Signor Presidente, parlo in difformità all’indicazione del mio Gruppo. Intervengo perché non parteciperò fisicamente al voto: mi asterrò materialmente dal votare l’emendamento 12.211 perché sono convinto, per ragioni diverse da quelle espresse dal professor Ichino, che per una professione liberale non ci debbano essere tariffe minime imposte per legge, e ancora meno possano esserci tariffe massime imposte per legge, e di cui non si comprende la ragione. (Applausi della senatrice Contini). Questa è la ragione: non perché c’è l’Authority, la quale deve governare se stessa e quindi fa un’autoapologia sull’how to, come si usa, e neanche per quello che dice la Comunità europea. Tanto meno capisco il divieto del patto di quota lite: un fenomeno che, oltre a quel che ha detto il professor Ichino, non vedo caratterizzato dalle prerogative negative espresse dal Sottosegretario. Per queste ragioni mi asterrò dal votare l’emendamento 12.211. (Applausi dal Gruppo PD e della senatrice Contini).

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ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto sull’ordine del giorno G12.200.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, l’ordine del giorno G12.200 investe proprio la questione che è stata al centro del nostro dibattito oggi: cioè se davvero la dignità di un mestiere o di una professione possa essere misurata o difesa da una tariffa minima fissata per quel mestiere o quella professione. Su questo punto l’Autorità antitrust si è pronunciata in modo molto chiaro. Cito testualmente: «Il decoro è un concetto di valore etico che può essere utilizzato quale principio generale dell’attività professionale, ma non come parametro economico di determinazione del compenso». Questo significa che la dignità, il decoro della professione non possono essere difesi limitando la competizione libera in un mercato ben funzionante. Salvo che – questo è un punto che deve essere molto chiaro – quel mercato soffra di distorsioni che ne impediscano il corretto funzionamento. Nel mercato del lavoro subordinato la fissazione di un salario minimo o di tariffe collettive si giustifica per l’esistenza di precise distorsioni di quel mercato determinate da asimmetria informativa e/o dalla struttura di monopsonio che quel mercato molto sovente assume, cioè l’esistenza di un unico compratore con una pluralità di venditori di lavoro, cosa che determina uno squilibrio di potere contrattuale tra le parti. Nel mercato del lavoro libero-professionale queste distorsioni non si verificano: i liberi professionisti sono tipicamente – direi quasi per definizione – persone che forniscono i loro servizi a una pluralità di clienti, e conoscono solitamente il loro mercato molto meglio di quanto lo conoscono i loro clienti. Allora, se nel mercato libero-professionale queste distorsioni non si verificano, non può giustificarsi l’introduzione di un minimo di compenso: questo genera posizioni di rendita a favore di una parte dei professionisti.
Chiedo a voi, colleghi della maggioranza: davvero non vedete quanto lede il prestigio dell’avvocatura il fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, che tutti conosciamo, degli avvocati che lucrano proprio in virtù delle tariffe minime delle vere e proprie rendite che talvolta sono ingentissime? Mi riferisco alle difese penali d’ufficio che si riducono a due parole in udienza e venivano retribuite in serie, come se il caso avesse richiesto ore di lavoro; oppure alle cause seriali, nelle quali l’atto giudiziale si faceva un tempo con il ciclostile, più di recente con la fotocopiatrice, cambiando solo un nome nell’epigrafe; eppure ognuno di quegli atti veniva obbligatoriamente retribuito, prima del decreto legislativo voluto da Bersani, come se quell’atto fosse stato scritto e studiato per esteso per ogni singolo caso. Credo che la dignità della professione non fosse certamente favorita dalla percezione di quelle rendite. Né riesco a vedere come quelle tariffe minime potessero di per sé garantire una migliore qualità della prestazione professionale: al contrario, tutto induce a pensare che
Viceversa, non vedo niente di indecoroso nel fatto che l’avvocato della Camera del lavoro svolga la propria attività chiedendo onorari inferiori ai minimi tariffari, magari concordando che, una volta vinta la causa, se il giudice non condannerà la controparte alle spese processuali (perché anche questo accade, senatore Mugnai), una percentuale predeterminata della somma recuperata verrà destinata a remunerare l’avvocato stesso. Ma che cosa c’è di indecoroso in questo? Ci sono interi stuoli di avvocati, in Italia, che lo fanno molto decorosamente e proprio per questo sono amati e stimati dai lavoratori che si rivolgono a loro.�
Vengo ora all’obiezione secondo cui nel processo del lavoro non si pagherebbero fondi spese. Certo, non c’è l’esborso per i bolli sugli atti giudiziari, ma l’onorario dell’avvocato c’è e di questo abbiamo discusso e stiamo discutendo. In questo settore, i minimi professionali vengono diffusamente trasgrediti, solo che, fino al decreto Bersani, non lo si poteva dire. Era forse dignitoso questo? Allora, poiché il riferimento alla dignità e al decoro è del tutto fuori luogo, vi invito a considerare questo ordine del giorno. E preannuncio ovviamente il voto favorevole su di esso da parte del Gruppo PD. (Applausi dal Gruppo PD).

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5. – SULLA QUESTIONE DELL’INCOMPATIBILITA’ DELLA PROFESSIONE FORENSE CON LA SUBORDINAZIONE

ICHINO (PD). Signora Presidente, illustro all’emendamento 13.205. Il comma quarto dell’articolo 13 recita: «La collaborazione tra avvocati, anche se continuativa, non dà mai luogo a rapporto di lavoro subordinato». Oggi questa è la norma che regola la materia; quindi questo comma non introduce una novità. Tuttavia, il ribadire questa norma contrasta con un orientamento molto preciso della Corte costituzionale, che stabilisce che il legislatore ordinario non può facere de albo nigrum, ovvero stabilire che è autonomo ciò che è in realtà subordinato. La Corte costituzionale stessa avverte che ci possono essere molti buoni motivi, in situazioni particolari, per modificare la disciplina del rapporto in questione e quindi, pur rispettandone la qualificazione come rapporto di lavoro subordinato, per esentarlo da determinate norme. Per esempio si può assoggettarlo, in materia di contribuzione, al regime di assicurazione della cassa avvocati e non al regime dell’assicurazione generale INPS; oppure dettare norme particolari in materia di licenziamento per non assoggettare il rapporto allo Statuto dei lavoratori. Tutto ciò è perfettamente legittimo, dice la Corte costituzionale, ma quello che non si può fare è dire che è autonomo ciò che in realtà è subordinato. Chiedo allora perché dobbiamo commettere qui un errore tecnico quando la Corte ci ha indicato in modo molto preciso e limpido in quale modo si può risolvere il problema. Tutti noi avvocati sappiamo che negli studi legali è comunissimo che si determini un vero e proprio rapporto di dipendenza; ci sono praticanti che sono molto più subordinati e molto più dipendenti di quanto non sia un normale lavoratore subordinato. Prendiamo allora atto di questa situazione e regoliamola adeguatamente. Sopprimiamo un comma, che è evidentemente sbagliato e incostituzionale, e sostituiamolo non con un rinvio alla disciplina generale del lavoro subordinato – che, sono il primo a riconoscerlo, sarebbe qui del tutto inopportuno – ma con una normativa adatta alla specialità del rapporto.
Questa non sarebbe una novità sul piano sistematico. È esattamente quanto è stato fatto per esempio, nel 1981 per il lavoro sportivo. Invece di qualificare automaticamente l’atleta come autonomo, si è detto: laddove lo sportivo professionista operi in regime di sostanziale subordinazione, non si applicano lo Statuto dei lavoratori, le norme in materia di provvedimenti disciplinari, bensì uno statuto speciale per il lavoro dello sportivo professionista. Facciamo un’operazione di questo genere anche per quelle posizioni tipiche del lavoro forense che hanno tutti i caratteri della subordinazione e che per certi aspetti meritano anche una qualche tutela tipica del lavoro subordinato, ma che è tuttavia giusto esentare dalla disciplina generale del lavoro subordinato. Credo che in proposito non ci siano problemi di destra e sinistra, di maggioranza e opposizione, e neanche problemi di favore nei confronti di un’istanza della professione forense rispetto a interessi sottolineati dall’Antitrust o da altri enti esponenziali. Si tratta solo di una questione di correttezza giuridica e di buona tecnica legislativa, la quale ci evita di andare contro un orientamento costituzionale che è ben conosciuto e ribadito in numerose sentenze. Per queste ragioni, propongo di sopprimere concordemente il comma 4 e magari, con l’accordo del relatore, individuare gli emendamenti integrativi che possono adeguatamente sostituirlo.

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6. – SUL REQUISITO DELLA CONTINUITA’ DELL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE

ICHINO (PD). Signora Presidente, ritiro l’emendamento 16.210 e illustro invece l’emendamento immediatamente successivo, il 16.211. La lettera c) del comma 8 dell’articolo 16 prevede la cancellazione d’ufficio dagli albi, elenchi e registri quando viene accertata la mancanza del requisito dell’esercizio continuativo della professione ai sensi dell’articolo 20. Ora, non siamo ancora arrivati all’articolo 20, ma quando ci arriveremo illustreremo il motivo per cui riteniamo che tale requisito della continuità della professione non possa costituire requisito dirimente ai fini della permanenza nell’albo degli avvocati. Abbiamo già discusso in riferimento ai primi articoli di questa legge su questo punto e abbiamo tra l’altro osservato che il requisito della continuità è incompatibile con un divieto di discriminazione indiretta ai danni delle lavoratrici, in questo caso delle avvocatesse, perché è noto che nell’attività lavorativa delle donne la discontinuità è statisticamente maggiore rispetto agli uomini. Sulla base di questa osservazione statistica, la Corte di giustizia ha vietato tutte le clausole di regolamenti, contratti collettivi o leggi che condizionino alla continuità, o ad un certo tasso di continuità, dell’attività lavorativa determinati benefici o diritti. Questo significa che noi non possiamo introdurre un criterio di continuità senza determinare un danno, un pregiudizio, per la parte femminile della platea a cui la norma si riferisce: in questo caso, la platea degli avvocati. Questo è il motivo per cui proponiamo la soppressione di questa disposizione. Naturalmente, poi torneremo su questo punto quando arriveremo all’articolo 20. (Applausi dal Gruppo PD).

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