COSTRUIRE L’ALTERNATIVA SU PROGRAMMI INCISIVI, NON SU SANTE ALLEANZE

L’ALTERNATIVA AL GOVERNO BERLUSCONI NON SI COSTRUISCE METTENDO IN PIEDI “SANTE ALLEANZE” CHE VANNO DA FINI A VENDOLA, MA PUNTANDO SU POCHI PUNTI PROGRAMMATICI PRECISI

Articolo di Enrico Morando, pubblicato su il Foglio il 4 marzo 2011

Dunque, non ci saranno elezioni anticipate, nella Primavera che sta per iniziare. Paradossalmente, è l’ulteriore e progressivo indebolimento della leadership di Berlusconi a produrre questo esito: prima – quando non erano ancora state ammesse, dal Premier, le sue pressanti telefonate per ottenere il rilascio di quella che ha poi scoperto non essere la nipote di Mubarak; quando le bozze dei decreti legislativi sul federalismo fiscale sembravano più coerenti con i principi di delega e, quindi, accompagnate da un più ampio grado di consenso; quando apparivano meno stringenti i principi cardine del nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo – Berlusconi e Bossi potevano scegliere la strada del voto anticipato.
Un rischio, per loro e per il Paese. Certo. Ma un azzardo calcolato: per chiedere agli elettori di punire il “traditore” Fini, facendo ripartire la macchina della “rivoluzione federalista e liberale”. Ora, il ricorso immediato alle urne può essere solo il frutto di un evento che li travolga, di una totale perdita di controllo della situazione. Quando Berlusconi e Bossi dicono, come fanno nelle ultime settimane: “si va avanti”, non compiono più una scelta tra alternative disponibili: si trincerano dentro gli attuali rapporti di forza parlamentari, che hanno in parte provveduto a restaurare dopo quella che sembrava una tempesta rovinosa (la costituzione di FLI), e si è rivelata solo un robusto temporale.
Le conseguenze per il Paese si annunciano nefaste: il Presidente del Consiglio, impegnato notte e giorno ad occuparsi degli affari (giudiziari) suoi, costruirà l’agenda politico-parlamentare sulle ricette – incessantemente mutevoli – suggerite da suoi avvocati difensori, così che il Paese non avrà né ruolo, né strategia nella gestione di dossier cruciali per il suo futuro, come quelli delle nuove regole del Patto di Stabilità e di Crescita europeo e delle conseguenze del collasso della Libia di Gheddafi.
Se le cose stanno così – e a me pare proprio che stiano così – anche il PD si trova di fronte all’esigenza di un profondo mutamento di strategia: se il voto sarà tra un anno e più, l’idea di prepararlo facendosi regista della costruzione di una Grande Alleanza Costituente, da Fini a Vendola, passando per Casini e Di Pietro, è semplicemente insostenibile.
Come ho cercato di dimostrare alla recente Assemblea Nazionale del PD, lo era anche prima. Ma adesso? Adesso anche il più convinto sostenitore della teoria emergenzialista dell’Union sacrée contro Berlusconi non può non prendere atto che restare ancorati a questa proposta politica impedisce ai riformisti italiani di utilizzare la crisi verticale di credibilità di Berlusconi per mettere in campo con successo – ben radicata sui fondamentali problemi del Paese – un’iniziativa di sfondamento nel campo avversario, tra quei milioni di elettori del centro-destra che hanno già maturato un giudizio di profonda delusione per le performances del Governo, ma non considerano uno schieramento tenuto insieme dall’antiberlusconismo come un’alternativa credibile. Ciò che spiega perchè il PDL crolla nei sondaggi, ma il PD non conquista uno solo di quegli elettori in fuga.
Per lo sviluppo di questa iniziativa, la priorità riconosciuta fino ad oggi ai rapporti con altre forze di opposizione è più un impaccio che una risorsa. Non perchè – quando sarà, tra almeno un anno o addirittura nel 2013 – non sarà importante, per il PD, poter contare su un solido sistema di alleanze politiche. Ma perchè, a decidere della possibilità stessa di costruire domani quelle alleanze, è oggi la capacità di conquistare – su di una coraggiosa piattaforma di cambiamento del Paese, oltre lo status quo neocorporativo difeso dal populismo del centro-destra – il consenso di almeno due milioni di cittadini delusi da Berlusconi.Due milioni di persone da convincere, in un anno e più, che noi abbiamo visione, leadership e programmi buoni per il Paese e, dunque, anche per loro.
Non è impossibile. Ma non c’è più tempo da perdere dietro a improbabili manovre e colpi di mano parlamentari: ad un’analisi seria dei problemi del Paese e delle sue potenzialità dobbiamo far corrispondere – come si è cominciato a fare all’Assemblea del Lingotto – un credibile progetto di cambiamento, scommettendo tutto sul PD e sulla sua capacità di farsi protagonista e forza egemone di una lunga stagione di governo riformista. Riforme radicali – progettate oggi, dall’opposizione, a differenza di quello che facemmo tra il 2001 e il 2006 – da contrapporre al populismo conservatore che prospera su paure e tensioni che esso stesso promuove ed esaspera. Obiettivo unificante e principio ispiratore comune: cambiare e non difendere. In tutti i campi, dalle politiche per l’immigrazione (vedi il documento Maran presentato all’Assemblea PD di Busto Arsizio), a quelle per la sicurezza (un solo corpo di polizia per il controllo del territorio), dal diritto “unico” del lavoro (Ichino) al nuovo modello contrattuale, per redistribuire anche a favore dei lavoratori i vantaggi da aumento della produttività, fino alla partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Berlusconi e il centro-destra sono stati in grado di impedire che la loro crisi politica, assai profonda, si tramutasse in crisi di governo aperta. Ma non saranno in grado di reggere un’offensiva organizzata attorno a risposte al tempo stesso realistiche e coraggiose ai problemi che essi sanno di volta in volta agitare o aggirare, ma non affrontare e risolvere.
Le occasioni si propongono ogni giorno. Il 24-25 marzo, ad esempio, c’è un Consiglio Europeo in cui si decide sulle procedure e i caratteri della nuova governance economica europea e del Patto di Stabilità e Crescita, dopo il sostanziale fallimento di quello in vigore, concentrato esclusivamente sul deficit pubblico. Merkel e Sarkozy hanno parlato chiaro: proporranno in quella sede di adottare, nelle Costituzioni Nazionali, regole sull’indebitamento strutturale delle Pubbliche Amministrazioni simili a quelle fissate dai nuovi art. 115 e 109 della Costituzione tedesca. Il Governo italiano – visto che “va avanti” – deve essere sfidato a dire agli italiani, prima del 24 Marzo, come intende rispondere a questa proposta. Per farlo credibilmente, il PD deve esplicitare la sua risposta, quella che ritiene utile per il Paese: inserire nella Legge di Contabilità – attuativa dell’art. 81 della Costituzione – l’obiettivo del costante miglioramento del saldo strutturale (0,5% del PIL rispetto all’anno precedente), fino all’azzeramento dell’indebitamento netto strutturale. Una regola anticiclica di evoluzione della finanza pubblica che, adottata già nel 2011, garantirebbe – anche senza ulteriori interventi sul volume globale del debito attraverso l’utilizzo di una quota del patrimonio pubblico (che certo potrebbero aiutare) – una rapida discesa del debito stesso sotto il 100% del PIL poco dopo il 2020, così da riaprire spazi di libertà per una politica di bilancio orientata alla coesione sociale e al recupero di competitività.
Non regge l’obiezione, apparentemente improntata a realismo: “ma come fa, un Governo che si regge in piedi a stento, a trovare la forza per una scelta tanto impegnativa?”. Se il Governo si sottrae, infatti, mostra alla maggioranza degli italiani che la sua pretesa di “andare avanti” collide con gli interessi del Paese. Ciò che accrescerebbe, in automatico, la credibilità del PD come forza responsabile, interprete dello spirito di reazione e della voglia di farcela del Paese. Se invece il Governo accettasse la sfida e facesse la scelta proposta dal PD (è un’ipotesi di scuola, ma perchè mettere limiti alla Provvidenza?), tanto meglio per l’Italia e per lo stesso PD, capace di promuovere l’innovazione e lo sviluppo anche dall’opposizione. Quale migliore testimonianza e garanzia della sua capacità di farlo dal governo?
Dunque, il PD ha urgente bisogno di un trasparente mutamento di linea politica: sia rispetto a quella che ha legittimamente prevalso, con Bersani, all’ultimo Congresso (la priorità delle alleanze rispetto al consolidamento della “vocazione maggioritaria”), sia rispetto a quella seguita dall’estate scorsa (la Grande Alleanza per far fronte all’emergenza democratica). Intendiamoci. Bersani ha pieno diritto di insistere sulla strada seguita sin qui. Sulla quale del resto ha raccolto, cammin facendo, il consenso anche di gran parte delle minoranze congressuali. Ma questa scelta – ripeto, pienamente legittima – espone il PD ad un rischio davvero grande: ritrovarsi tra un anno – con la scadenza elettorale a quel punto davvero imminente – privo di una proposta politica credibile, a fronte di un centro-destra ristrutturato, o per iniziativa dello stesso Berlusconi, o per l’emergere di una nuova leadership, che prevalga su quella del Cavaliere.
Proprio perchè è vero che il declino di Berlusconi è cominciato, non si può affatto escludere che l’insieme delle forze politiche, economiche, sociali, culturali e religiose che nel 2008 sostennero il centro-destra si stiano oggi muovendo per favorire una sua profonda ristrutturazione, con un nuovo candidato-Premier (Tremonti) e il ritorno a pieno titolo dell’UDC nella coalizione (sì, potrebbe avvenire col pieno consenso della Lega, garante lo stesso Tremonti).
Questa evoluzione del centro-destra non è affatto certa. Anzi. Ma non è impossibile. Ed è negli auspici dei più, consapevoli che Berlusconi, ammesso che sia mai stato una risorsa, per l’Italia, è da tempo diventato un problema. In ogni caso, ciò che conta – per il PD – è che la sua proposta di Grande Alleanza, già oggi poco utile per conquistare i molti elettori delusi da Berlusconi, verrebbe letteralmente messa fuori gioco da questa possibile riorganizzazione dell’offerta politica, sul lato del centro-destra.
Chi ragiona così, nel PD, ha dunque il diritto (e anche il dovere, nell’interesse del Paese e del partito) di chiedere a Bersani di operare non una semplice correzione, ma una vera e propria svolta di strategia. E deve farlo attraverso una trasparente battaglia politica, senza imboscate, manovre diversive e confuse pretese di mutamento a proprio favore degli equilibri sui quali oggi poggia lo gestione del partito. Se la risposta di Bersani sarà positiva, tanto meglio. Se sarà negativa, la strategia alternativa dovrà pacatamente organizzarsi in vista di un appuntamento congressuale che comunque ci sarà, prima delle elezioni Politiche, se esse non si terranno (come non si terranno) nella prossima Primavera. Un’occasione nella quale, col metodo aperto fissato dallo Statuto, gli elettori Democratici più attivi saranno chiamati a definire visione, programma e leadership coi quali andare al confronto col centro-destra.

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