LA SCORCIATOIA DELL’ITALIANITÀ

I DATI DI UNA RECENTE INDAGINE SU SETTE PAESI EUROPEI INDICANO CHE LA QUOTA DI IMPRESE A CONTROLLO ESTERO È SENSIBILMENTE PIÙ BASSA IN ITALIA RISPETTO A FRANCIA E GERMANIA – IL CAPITALE ESTERO PUÒ RAPPRESENTARE UN’OPPORTUNITÀ IMPORTANTE DI CRESCITA, MENTRE NOI, CON LA SCUSA DI DIFENDERE L’ITALIANITÀ, PROTEGGIAMO GLI INTERESSI COSTITUITI DI UNA CLASSE DIRIGENTE AUTOREFERENZIALE

Articolo di Fabiano Schivardi pubblicato su lavoce.info – 22 marzo 2011

Ci risiamo. Puntuale come l’influenza, torna la difesa dell’italianità delle imprese, nel cui nome sono state commesse già molte scempiaggini. Questa volta il casus belli è Parmalat, un’impresa con tanta liquidità in pancia da attrarre potenziali scalatori come le api al miele.
La giustificazione per introdurre norme che scoraggino scalate di investitori esteri è la mancanza di reciprocità da parte degli altri paesi. Negli anni recenti in effetti non mancano esempi in cui i governi dei nostri partner, particolarmente Francia e Germania, hanno adottato politiche protezionistiche in casi simili. Pretendere reciprocità di trattamento, e un insieme di regole chiare, condivise e rispettate a livello europeo, è giustissimo. È scorretto che in un settore energetico privatizzato e liberalizzato a
livello europeo ci sia un monopolista pubblico francese, assolutamente non contendibile, che porta avanti politiche di acquisizione aggressive.

IN ITALIA NON PASSA LO STRANIERO
Ma al di là di singoli episodi, è vero che siamo di fronte a una nuova ondata di invasioni barbariche? Che le imprese negli altri paesi sono al riparo dal controllo estero? In un progetto di ricerca recente a cui ho collaborato sono stati raccolti e analizzati dati omogenei relativi alle imprese manifatturiere con almeno dieci addetti per sette paesi europei: Austria, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Spagna e Regno Unito. (1)
La tavola sotto riporta alcune statistiche descrittive della struttura proprietaria e finanziaria delle imprese. La quota di aziende a controllo estero, definite come quelle con almeno il 50 per cento del capitale posseduto da azionisti stranieri, in Italia è la più bassa (4,1 per cento), meno della metà di quella francese (10,3 per cento) e un terzo di quella del Regno Unito (12,2 per cento). Questi dati
sconfessano l’idea che il capitalismo italiano sia in fase di colonizzazione e confermano piuttosto che il nostro sistema produttivo non è in generale in grado di attrarre investimenti dall’estero. La difficoltà in entrata è riflessa da una quota di imprese che fa investimenti diretti all’estero più bassa dei partner europei – si veda la seconda riga della tabella. Piuttosto che un capitalismo in fase di colonizzazione, il confronto internazionale indica un sistema di imprese più chiuso sia in entrata che in uscita. Le imprese italiane sono anche meno frequentemente parte di un gruppo, molto raramente hanno un venture capitalist nella compagine azionaria e hanno una quota di finanziamento bancario superiore a quello degli altri paesi.
Il rapporto mostra come questa struttura proprietaria e finanziaria tenda ad accompagnarsi a performance d’impresa peggiori. In particolare, le imprese a controllo straniero in tutti i paesi hanno tassi di internazionalizzazione più elevati. Il capitale estero può quindi rappresentare una prospettiva di crescita per le aziende.
La critica che più spesso viene avanzata al passaggio del controllo a investitori stranieri è la possibilità che questi si approprino di marchi e di tecnologia e smantellino la produzione in Italia. È possibile, anche se non scontato, che controllanti esteri si sentano meno vincolati dal punto di vista della salvaguardia dell’occupazione rispetto a quelli nazionali. Allo stesso tempo, bisogna prendere atto del fatto che le attività produttive rimarranno in Italia solo se il paese saprà offrire condizioni competitive alla produzione di beni e servizi. Diversamente, neanche un proprietario “nazionale” potrà garantire il mantenimento della produzione in loco, come testimonia il processo di delocalizzazione portato avanti anche da imprese a controllo nazionale. Occuparsi della nazionalità del controllante invece che delle condizioni in cui le imprese operano è una strategia che può pagare politicamente nell’immediato, ma perdente nel medio periodo. Operazioni “di bandiera” sono inutili nel migliore dei casi, come per l’annunciata riforma costituzionale per la libertà d’impresa, dannose negli altri, come nella vicenda Alitalia. Non esistono alternative a seri programmi di riforme strutturali che ridiano competitività al sistema produttivo.

COME DIVENTARE PIÙ GRANDI
Oltre a problemi di competitività di sistema, il controllo delle imprese italiane soffre di problemi antichi e mai risolti. Le imprese italiane sono sottocapitalizzate e si affidano quasi unicamente al credito bancario. La struttura proprietaria, incentrata sulla famiglia, è generalmente contraria all’apertura del capitale per timore di perdere il controllo. Da un’indagine della Banca d’Italia del 2006 emerge che molte imprese rinunciano a possibilità di crescita per non aprirsi a capitale di rischio esterno. Queste condizioni generano una sottocapitalizzazione cronica e una struttura sbilanciata verso la piccola dimensione, che rendono il sistema di controllo delle imprese fragile. Nel caso di Bulgari, passata sotto il controllo della francese Lvmh, sono questi i nodi che hanno impedito la nascita di un grande gruppo del lusso a controllo italiano. È necessario accrescere la capitalizzazione delle imprese, favorendo l’afflusso del risparmio delle famiglie verso forme di investimento azionario, sviluppando il mercato borsistico, facendo crescere il settore del venture capital e del private equity. E anche qui rimane molta strada da fare. La scorciatoia più semplice è quella di un intervento legislativo del governo. Proteggere le imprese dalle scalate, particolarmente estere, danneggia l’economia del paese, ma fa comodo a gruppi di potere influenti. Aiuta i “capitalisti senza capitali”, che attraverso catene di controllo, patti di sindacato e banche di sistema controllano le imprese con lo zero virgola del capitale di rischio. Piace a una ristretta cerchia di manager autoreferenziali che si muovono con molta grazia e poco sforzo da un consiglio di amministrazione all’altro, senza doversi preoccupare troppo della performance delle aziende che gestiscono, forti di un sistema di relazioni inossidabile. Fanno comodo a un potere politico che preferisce un interlocutore imprenditoriale nazionale, possibilmente debole e sensibile alle istanze della politica. Con questi interessi in gioco, è facile prevedere come andrà avanti la “battaglia” per l’italianità.

Tavola: struttura proprietaria e finanziaria delle imprese in sette paesi europei, 2008 (cliccare sulla tabella per ingrandirla e leggerla con migliore risoluzione)
 
(1) “The Global Operations of European Firms. The second Efige Policy Report”, di Giorgio Barba Navaretti, Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi, Carlo Altomonte, Daniel Horgos e Daniela Maggioni.
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