CHE COSA IMPEDISCE ALL’ITALIA DI CRESCERE

UNA RASSEGNA DELLE PRINCIPALI QUESTIONI CHE DETERMINANO L’ARRETRATEZZA DEL NOSTRO PAESE

Intervento svolto da Stefano Micossi, presidente di Assonime, all’Università Bocconi di Milano il 13 aprile 2011 e nel corso di un incontro con la Presidenza del Gruppo dei senatori Pd il giorno dopo – Segnalo in particolare il riferimento finale, contenuto in questo intervento, al disegno di legge n. 1873/2009 – In argomento v. anche il mio intervento in Senato del 20 aprile 2011

L’Italia non cresce da oltre un decennio. Le cose da fare sono molte e complicate, oltre che difficili politicamente. Sottolineerei tuttavia tre punti particolarmente dolenti, che sono anche secondo me il punto d’attacco per cambiare:
   a. Lo stato nell’economia e i costi della politica;
   b. Le regole e la terzietà dell’applicazione;
   c. L’apertura dei mercati, particolarmente nei servizi e nel mercato dei capitali; che portano con sé condizioni di flessibilità: capitale umano e flexsecurity.
Tutti punti tradizionalmente all’attenzione di Assonime, che continua su questi fronti a proporre sistemi moderni di governo – peraltro trovando poco ascolto tra le forze politiche, piuttosto omogenee nella difesa delle storture esistenti.
Il singolo maggior fattore di distorsione e freno alla crescita dell’economia nel nostro paese è la presenza dello Stato nell’economia, di cui il costo spropositato della politica è solo l’espressione più plateale. Si badi bene: non sto dicendo che l’intervento pubblico non serve, solo che nel nostro paese esso è degenerato al punto che i costi sopravanzano largamente i benefici. Il costo maggiore è nella distorsione dei mercati e nella sistematica violazione a ogni livello dell’efficienza. Tutto ciò risponde a una concezione distorta dell’intervento pubblico in economia, peraltro condivisa largamente nella nostra cultura politica e sindacale, che poi nei fatti si traduce nella difesa di assetti produttivi inefficienti, nella distribuzione di sussidi a pioggia, nella creazione di posti e poltrone con finalità clientelari. Il fattore più rilevante di distorsione è costituito, più che dalla cattiva gestione, dalla sistematica violazione dei criteri di mercato nell’assegnazione di consulenze, appalti e forniture – con colossali sprechi, ma soprattutto sacrifici di tecnologia rispetto a quanto sarebbe disponibile.
Questo sistema degenerato ha un’origine lontana, nel conflitto distributivo che esplode nel nostro paese alla fine degli anni sessanta, poi aggravato dagli shock petroliferi. Invece di affrontare lo squilibrio, si cercò di accomodarlo con la spesa pubblica, dando inizio a quell’economia dei
sussidi di cui ancora oggi non riusciamo a liberarci. Il sistema politico-amministrativo è diventato un enorme distributore di denaro, sempre più corrotto; le distorsioni prodotte dal tentativo di mantenere in vita relazioni di lavoro fuori mercato hanno progressivamente distrutto la grande industria, privata e pubblica, e reso l’economia sempre più asfittica. Dietro le ruberie e gli sprechi, dunque, non c’è solo corruzione, pure ben diffusa nel corpo della classe politica. Vi è anche una concezione comune della politica che rifiuta i vincoli del mercato e che continua a illudersi di poter governare lo sviluppo con la spesa pubblica e gli incentivi a pioggia – invece di concentrarsi sulla creazione di condizioni favorevoli allo sviluppo e all’impresa. E vi è l’interesse ormai consolidato di una classe politica che è diventata ceto, e invece di mediare tra gli altri interessi, è essa stessa interesse costituito che occupa la cosa pubblica e ne distribuisce i benefici ai suoi propri esponenti. E’ chiaro che se non si diffonde la consapevolezza che questa è la prima anomalia da correggere, che serve un grande programma di risanamento della politica e delle istituzioni, non si può neanche incominciare a occuparsi del resto.
Il secondo punto di attacco per rimettere in carreggiata l’economia italiana è la stabilità e la terzietà delle regole, mai accettata dalla nostra cultura politica e sindacale. Al suo posto, sono prevalse la continua variazione delle regole di mercato in risposta ad eventi contingenti e la loro applicazione negoziata, con la mediazione della politica, che ne approfitta per imporre le sue taglie.
Anzitutto, l’instabilità delle regole. Basti pensare alle regole fiscali, con un fiume costante di norme, circolari applicative e variazioni degli adempimenti che rendono ogni cadenza fiscale una specie di incubo per imprese e famiglie; provvedimenti poco meditati che poi vengono corretti e ricorretti per la palese assurdità degli effetti; ripetuto ricorso a misure di tassazione emergenziale su soggetti specifici, utilizzati in realtà per nascondere l’impatto effettivo sulla generalità dei contribuenti, che poi arriva con il trasferimento su di loro dei costi attraverso maggiori prezzi o tariffe di servizio. Un aspetto particolarmente grave, che denunciamo da tempo, riguarda i nuovi sistemi di contrasto dell’elusione e gli accertamenti mirati per certe categorie di imprese, che hanno minato i principi elementari di certezza della pretesa fiscale e configurano un vero e proprio pericolo di confisca.
Lo stesso per molte regole ambientali, che per giunta vengono applicate in modo difforme da regione a regione. O per i sistemi di incentivo. Si pensi ad esempio alla recente vicenda degli incentivi agli impianti fotovoltaici:prima si concedono benefici esorbitanti, senza alcuna stima attendibile dei costi; poi si interviene rinnegando le promesse quando ci si accorge che gli oneri sono insostenibili. L’inevitabile razionamento delle concessioni avviene in un clima opaco, nel quale di nuovo la politica gioca un ruolo sproporzionato nella scelta dei beneficiari.
Se non bastasse l’instabilità delle regole, vi è poi l’applicazione faziosa delle regole. L’ultimo esempio: il governo non vede di buon occhio la vendita di Bulgari e Parmalat, allora l’Agenzia delle entrate avvia accertamenti straordinari sui venditori, e l’autorità antitrust apre un’indagine. Dando l’immagine, invece che autonome agenzie, di strumenti captive al servizio dell’esecutivo. Lo stesso era accaduto quando i corsi delle azioni cadevano, e la Consob decise di predisporre reti a tutela del controllo delle aziende italiane. Per fortuna il nuovo presidente della Consob pare meno sensibile a queste sirene.
Più in generale, ogniqualvolta si deve applicare una sanzione, la politica è pronta a intervenire per ritardarla o eliminarla, naturalmente in cambio di adeguate contropartite.
Risultato: gli orizzonti si accorciano, si moltiplicano i comportamenti opportunistici, gli investitori si allontanano. L’immagine del nostro paese è quella di un paese in cui non esiste la certezza delle regole; il suo sostituto è l’intermediazione politica, spesso con contropartite di corruzione.
Sull’apertura dei mercati, è presto detto. L’Italia un tempo ritardava a trasporre le direttive europee; poi, obbligata a farlo dall’Europa, ne ha ritardato per quanto possibile l’applicazione. La cultura comune dell’amministrazione, come della politica, è protezionista e rivolta alla tutela dei produttori nazionali. L’idea che il mercato non solo migliori le condizioni dei consumatori, ma rafforzi le stesse imprese con la frusta della concorrenza, fatica a prevalere, anche per l’ostilità dei sindacati.
I due punti dolenti: il mercato dei capitali, il mercato dei servizi.
Il mercato dei capitali è sbarrato da assetti proprietari chiusi, per il timore di confisca, o da assetti di controllo relazionali; la disponibilità di equity è limitata da un sistema finanziario sempre più banco-centrico, ove la scomparsa dei canali pubblici di finanziamento a medio e lungo termine non ha poi dato luogo a canali di finanziamento diretto dal mercato indipendenti dalle banche.
Oggi il sistema appare in acuta tensione: in mancanza di investitori istituzionali autonomi dalle banche, la scarsità di capitale delle banche diventa scarsità di credito alle imprese, frenando l’economia. Per questo, ha ragione il governatore Draghi quando indica la priorità nella ricapitalizzazione del sistema bancario, che è la premessa indispensabile per riprendere le azioni di sviluppo dei canali equity e obbligazionari di finanziamento delle imprese; se non bastano i fondi privati, anche con fondi pubblici. Sperabilmente, senza ripetere l’errore del 2008, quando i necessari interventi di rafforzamento del capitale bancario divennero l’occasione per tentare ingerenze politiche sugli assetti di controllo – spaventando le banche e facendo abortire fallire l’operazione di ricapitalizzazione.
Quanto al mercato dei servizi, esso è chiuso da mille protezioni e corporazioni, che la politica non riesce a contrastare – con una perdita colossale di posti di lavoro medium e high skill e di tecnologia. Guidano la resistenza gli avvocati, autori di un disegno di legge oscurantista già approvato da un ramo del Parlamento, nel silenzio del Governo; i commercianti, che ritardano lo sviluppo della grande distribuzione; i piccoli alberghi, che impediscono la modernizzazione della nostra struttura ricettiva. L’attuazione della nuova direttiva europea sui servizi – innalzata a massima priorità nelle conclusioni del Consiglio europeo di fine marzo che ha deciso la governance economica comune per i paesi dell’euro – può cambiare il gioco: essa, infatti, obbliga le amministrazioni nazionali a redigere la lista delle restrizioni esistenti e ad eliminarle, se non possono essere giustificate in base a stretti principi d’interesse pubblico.
Naturalmente, l’apertura del mercato dei capitali e dei servizi presuppone un mercato del lavoro flessibile, nel quale le risorse investite possano spostarsi dagli impieghi non più redditizi a quelli più redditizi. Ma il nostro mercato del lavoro ingessato non lo consente. L’Europa ci aveva indicato più di 15 anni fa la via della flexisecurity, abbiamo fatto spallucce e abbiamo continuato con il nostro sistema duale – chi è dentro è protetto, chi è fuori è esposto a un brutale precariato. Entrambi con salari sempre più bassi, perché la produttività non può aumentare con un mercato del lavoro così inefficiente. La spallata di Marchionne ha esposto il problema, non lo ha risolto, si badi bene. Un disegno di legge di larga e bipartisan iniziativa parlamentare che inizierebbe a risolverlo, è bloccato, nell’indifferenza del governo.

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