FRANCESE? TEDESCO? SPAGNOLO? E SE LASCIASSIMO SCEGLIERE GLI ELETTORI?

IL SOLO MODO PER SOTTRARRE LA RIFORMA ELETTORALE AI GIOCHI CHE SI SVOLGONO NEL CHIUSO DEL PALAZZO È SOSTITUIRE IL REFERENDUM ABROGATIVO CON UN REFERENDUM CONSULTIVO CHE DIA AI CITTADINI LA SCELTA FRA I TRE MODELLI PRINCIPALI DI SISTEMA ELETTORALE DI CUI OGGI SI DISCUTE NEL PAESE – LA COSA DI PER SÉ SAREBBE POSSIBILE

Editoriale per la Newsletter n. 170, 10 ottobre 2011 – In argomento v. anche  il fondo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 9 ottobre, pubblicato il giorno dopo quello in cui questo editoriale è stato messo on line (8 ottobre) e senza alcuna concertazione tra i due autori


L’idea – audace ma non impossibile – è questa: sostituire il referendum abrogativo della legge elettorale con un referendum consultivo, nel quale si invitino gli elettori a scegliere fra i tre modelli principali di sistema elettorale di cui oggi si discute nel nostro Paese.
     Per il Pd, per una parte della Lega e dell’IdV, probabilmente anche per FLI, il first best è il collegio uninominale alla francese (cioè con doppio turno). Il progetto presentato in Parlamento il 31 luglio scorso, che prevede un mix di due terzi di seggi attribuiti con questo sistema e un terzo col sistema proporzionale, costituisce soltanto una proposta di possibile compromesso con l’UdC di Casini e l’ApI di Rutelli, per le quali il first best è costituito invece da un sistema proporzionale alla tedesca (con sbarramento al 4%), gradito anche a SeL. Per il PdL, infine, ora che il referendum abrogativo rende assai probabile l’abrogazione della legge vigente (il “porcellum” di Calderoli), il first best sembra essere costituito dal sistema spagnolo:  proporzionale con preferenze, ma in collegi molto piccoli, dove sono in palio pochi seggi e il risultato si avvicina dunque a quello dell’uninominale maggioritario.
     Questi sono i tre prototipi di riforma oggi all’ordine del giorno nel dibattito politico italiano, ciascuno dotato di una sua storia e di una sua logica facilmente comprensibile da tutti. Ciò che sta accadendo in questi giorni, però, è che ciascuno dei due partiti maggiori cerca una soluzione di compromesso con UdC e Api per raggiungere una (necessariamente risicatissima) maggioranza in Parlamento su di una possibile riforma che si discosti il meno possibile dalle rispettive prime scelte. È frutto di un’operazione di questo genere, come si è detto,  il progetto di riforma presentato in Parlamento dal Pd il 31 luglio scorso; sarà frutto di un compromesso analogo anche quello a cui sta lavorando il PdL: lo “spagnolo con collegi un po’ più grandi”, quindi nel quale l’effetto proporzionale sarà più marcato. Ma quel che conta è che queste trattative, che si svolgono nel chiuso del Palazzo, non hanno per obiettivo prioritario il consolidamento di un sistema democratico moderno ed efficiente, bensì gli interessi contingenti di una (possibile) coalizione, quando non addirittura gli interessi di un apparato di partito. Di queste trattative l’opinione pubblica è tenuta all’oscuro; e se ne vede proporre il risultato quando i giochi sono già chiusi. Il risultato sarà ancora una volta una riforma elettorale funzionale a un’alleanza contingente, disegnata dagli uni per guadagnare un vantaggio immediato contro gli altri, destinata a essere cancellata non appena gli altri riusciranno a diventare maggioranza; e allora saranno questi ultimi a rendere pan per focaccia ai primi. In questo modo continueremo ad avere una democrazia malata.
     Pensiamo, invece, a che cosa potrebbe accadere se riuscissimo a sostituire la scelta referendaria tra il “sì” e il “no” all’abrogazione della legge attuale – ormai scontatissima nel senso del “sì” – con una scelta orientativa tra il collegio uninominale, il proporzionale alla tedesca, e il proporzionale alla spagnola. Con l’impegno congiunto di tutte le forze politiche – o almeno delle due maggiori – nel senso di dare poi lealmente attuazione alla soluzione che avrà raccolto il consenso più ampio, e con la prospettiva di arrivare a una legge elettorale destinata a durare nel tempo, indipendentemente dall’avvicendarsi di maggioranze di segno diverso. Come hanno fatto in Nuova Zelanda venti anni fa, e in Inghilterra nel maggio di quest’anno. Così la riforma elettorale avrebbe il pregio non soltanto di una maggiore stabilità nel tempo, ma anche di essere sottratta nella fase di elaborazione ai corridoi del Palazzo ed essere decisa – almeno nelle sue linee fondamentali – dai cittadini. I quali nell’estate scorsa hanno rivendicato con forza, e con piena ragione, questo loro diritto naturale.
     Certo, occorre mettere in conto anche la possibilità che nessuno dei tre prototipi di sistema elettorale raggiunga la maggioranza assoluta dei voti nel referendum consultivo. Anche in questo caso il risultato sarebbe comunque utile per fornire motivazioni trasparenti alla scelta del legislatore, quindi per orientarla preferibilmente verso la soluzione che abbia il massimo possibile di consenso popolare. Ipotizziamo, per esempio, che (come fanno prevedere i dati di opinione oggi disponibili), il referendum consultivo dia il risultato del 45 per cento di voti a favore dell’uninominale, del 35 per cento a favore del sistema spagnolo e del 20 per cento a favore del tedesco. In questo caso la soluzione più vicina al responso degli elettori sarebbe quella che correggesse l’uninominale con l’introduzione del “voto trasferibile” o del “voto alternativo”, secondo il modello australiano (v. il d.d.l. n. 2312/2010 di Stefano Ceccanti)  che dà qualche spazio alla “terza” e alla “quarta forza” tra i due partiti maggiori. Se invece – per considerare una delle altre ipotesi più plausibili – il referendum consultivo desse il risultato del 45 per cento a favore del modello spagnolo, del 35 per cento a favore dell’uninominale e del 20 per cento a favore del tedesco, questo costituirebbe un motivo indiscutibile e trasparente a favore della scelta del proporzionale con collegi di dimensioni un po’ maggiori rispetto a quanto prevede oggi la legge in Spagna: per esempio, sei o otto seggi assegnati per ogni collegio invece che quattro o cinque, con la conseguente attenuazione dell’effetto maggioritario (che è tanto maggiore quanto minore è il numero dei seggi attribuiti nel collegio).
     Naturalmente, all’indomani di un referendum dal quale non sia emersa alcuna scelta sorretta dalla maggioranza assoluta dei voti, nessuno potrà togliere alle forze politiche l’ampia discrezionalità che compete loro nell’individuazione della soluzione di compromesso. Ma dal necessario confronto con l’esito referendario esse saranno vincolate a una molto maggiore trasparenza circa i motivi delle loro scelte. Anche in questo caso, dunque, la consultazione non sarà stata affatto un esercizio inutile.

     Per rendere possibile questa esperienza di alta civiltà politica occorrerebbe probabilmente varare una legge di rango costituzionale. Ma se ci fosse un po’ di buon senso da parte dei leader della maggioranza, il tempo per approvarla prima dell’indizione del referendum ci sarebbe eccome.  Sarebbe politicamente necessario anche il consenso del comitato sostenitore del referendum; il quale, di fronte a un impegno serio almeno da parte dei due partiti maggiori, darebbe presumibilmente ben volentieri il proprio pieno assenso a questa scelta di procedura, perché essa esalterebbe le potenzialità della consultazione referendaria, proprio nella direzione voluta da tutti i promotori.
     Sogno a occhi aperti? Forse. Ma la buona politica è proprio quella che consente ai sogni di diventare realtà.

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