LE RELAZIONI INTRODUTTIVE SUL DDL FORNERO

DUE VALUTAZIONI POSITIVE, MA DA DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI, DALL’INTERNO DELLO SCHIERAMENTO DI MAGGIORANZA, E UNA NETTAMENTE NEGATIVA DALL’OPPOSIZIONE

Relazioni introduttive svolte in Senato da Maurizio CastroTiziano Treu, relatori di maggioranza, e Giuliana Carlino, di minoranza,  nella seduta pomeridiana  del 23 maggio 2012

CASTRO (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTRO (PdL). Signor Presidente, signor Ministro, signor Sottosegretario, onorevoli colleghi, giunge in Aula, dopo un lavoro intenso e approfondito in Commissione, la riforma del mercato del lavoro, la cui genesi non può non essere ritrovata nella lettera scritta il 5 agosto dell’anno scorso dal Governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, insieme al Governatore entrante, Mario Draghi.
In quella lettera, con grande nitidezza veniva chiesto al nostro Paese il ridisegno dei sistemi regolatori per sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro, con una interessante endiadi concettuale, nel momento in cui il mercato del lavoro non viene considerato come un limite esterno alla competitività delle imprese, ma come un vettore interno alla medesima. In particolare, veniva chiesto da un lato, oltre naturalmente ad una severa riforma delle pensioni e ad un severo contenimento delle spese generate dalla pubblica amministrazione, un focus sulla produttività e sul livello aziendale nella riforma del sistema della contrattazione aziendale stessa e, testualmente, «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».
Una prima risposta fu data dal Governo allora in carica con il decreto-legge n. 138 del 2011, nel quale a queste sollecitazioni si cercava di rispondere con una facoltizzazione straordinaria delle parti sociali, in presenza di determinate condizioni organizzative e competitive, derogando a talune norme dello Statuto dei lavoratori, compreso l’articolo 18. Una strada senza dubbio interessante, ma che di fatto fu resa inagibile dalla dichiarazione con la quale le parti sociali, sottoscrivendo definitivamente l’accordo interconfederale del 28 giugno di quello stesso anno il 21 settembre, in concreto, forse incautamente, dichiararono di non intendere proseguire su quella strada. A questo punto, il nostro Paese si trovava in una condizione di potenziale inadempienza rispetto alle sollecitazioni della BCE.
Il Governo di allora assunse, con la lettera del 26 ottobre, un impegno molto scandito, sempre per corrispondere alle sollecitazioni internazionali, che avevano trovato materiamento nella lettera della BCE, ma che coralmente provenivano da tutti i più autorevoli organismi internazionali: dal Fondo monetario internazionale, dall’OCSE, dal Consiglio europeo, dalla Commissione europea. Ricordo come, con quella lettera del 26 ottobre, il Governo… (Brusìo). È veramente difficile andare avanti, Presidente; le chiedo sommessamente soccorso.

PRESIDENTE. Colleghi, si sta svolgendo la relazione su un importantissimo disegno di legge, su una riforma organica del mondo del lavoro. Inviterei tutti ad un maggior contegno e ad una maggiore attenzione, segnalando che chi non è interessato ha sempre la possibilità di lasciare l’Aula. Ci terrei che sin dall’inizio – e mi scuso nuovamente con il relatore – questo disegno di legge venga seguito dall’Aula con la doverosa, massima attenzione.
Ho garantito a tutti i Gruppi di opposizione disponibilità sui tempi della discussione generale, ho auspicato anche che l’Aula abbia la possibilità di discutere e di votare. Se questo mio auspicio non si accompagna ad un comportamento conseguente dei senatori credo che vada disperso, e questo mi dispiacerebbe molto.
Prego, continui pure, senatore Castro.

CASTRO, relatore. Con quella lettera del 26 ottobre – dicevo – il Governo si impegna a riformare, entro otto mesi, il mercato del lavoro per superarne il dualismo, da un lato contrastando le forme improprie di lavoro dei giovani e, dall’altro, adottando nuove regole di licenziamento per motivi economici. Ancora un’endiadi suggestiva dal punto di vista intellettuale: la connessione tra legalità e flessibilità. La legalità è il presupposto della flessibilità, è la condizione che rende agibile la flessibilità e insieme, flessibilità e legalità, sono vettore competitivo del nostro sistema produttivo. Mi preme ricordarlo in un momento nel quale talora il dibattito è sdrucciolato nel ritenere la sregolazione un elemento portante in un momento di crisi come questo.
Sappiamo tutti quel che accadde dopo: la lettera di Olli Rehn del 4 novembre, le 39 incalzanti domande; il 4 novembre è molto vicino all’8 novembre: il quadro politico cambia, si insedia il Governo dei tecnici, il quale, dopo aver adottato lestamente una riforma delle pensioni particolarmente incisiva, affronta il territorio della riforma del mercato del lavoro. Lo fa con una significativa consultazione delle parti sociali, dove il valore del termine «significativa» è dato non solo dalla sua intensità, ma anche dal fatto che viene quasi programmaticamente affermato che tale consultazione è, giustappunto, una consultazione i cui esiti non sono vincolanti per le decisioni che poi il Governo adotterà, secondo uno schema europeo che, per certi versi, si discosta da alcune consolidate tradizioni storiche italiane in cui l’inclinazione verso la concertazione era stata prevalente.
Ricordo a me stesso come quel 23 marzo, a conclusione dell’iter di consultazione, tutte le parti sociali (salvo una) dichiarano il loro consenso, la loro adesione al documento che conclude la fase della consultazione. Inizia poi la vera e propria fase parlamentare, la quale ci vede oggi giungere al dibattito in Aula.
Consentitemi di individuare insieme con voi quali siano le sfide alle quali siamo oggi da questo provvedimento chiamati a rispondere.
La prima – perdonatemi – è una sfida istituzionale. Nel momento nel quale questa riforma è seguita con straordinaria intensità – un’intensità accompagnata persino da qualche sospetto nei confronti della nostra capacità, della capacità del nostro Paese di positivamente corrispondervi, da parte di tutti gli organismi internazionali – il Parlamento è chiamato a dare una risposta istituzionale approvando il provvedimento contenente l’impegno assunto dall’allora Governo Berlusconi di otto mesi, che scadranno alla fine del mese di giugno. Siamo chiamati a tenere fede a questo impegno con una capacità di risposta che dimostra come un Parlamento tradizionale dell’Occidente sia capace di dare risposte normative con la stessa prontezza, agilità, flessibilità – se mi consentite una citazione vagamente ironica – dei mercati finanziari. Dobbiamo cioè essere in grado di dimostrare che questo organismo istituzionale non teme le sfide della contemporaneità più esasperata. Ebbene, questo provvedimento, un provvedimento di 72 articoli, singolarmente e straordinariamente complesso, incardinato in Commissione soltanto 42 giorni fa, oggi giunge in Aula.
Vi è poi una sfida competitiva, come prima rammentavo, che si richiama ancora una volta al tema di quella che poc’anzi ho definito l’endiadi legalità-flessibilità. In realtà, dobbiamo decidere quale modello competitivo vogliamo complessivamente assumere per la rinascenza economica del nostro Paese. Infatti, dobbiamo fare quella che in gergo si chiama una scelta di high-road strategy, di via alta, al riposizionamento competitivo del nostro Paese nel suo sistema economico, accettando che la centralità di quella sfida sia data dal permanere il nostro Paese ed il suo sistema economico-produttivo nei settori tradizionali, ma giustappunto riposizionandoli a presidio dei segmenti più pregiati dei mercati internazionali, e dunque con la centralità sul prodotto. Il prodotto è l’espressione naturale, libera, autentica e compiuta dei sistemi integrati di esperienza, intelligenza e competenza che sono le risorse umane.
Se questo percorso riesce, allora, è evidente che il sistema non può più consentire scorciatoie concettuali ed operazionali tipo quelle che vedono talune imprese sopravvivere sul mercato solo incorporando nella propria struttura dei costi quote di legalità. Non funziona così!
Vi è un’implicita, ma non per questo meno scandita funzione sanamente pedagogica – lasciatemelo dire – in tale provvedimento. Questo disegno di legge deve assumere che se vogliamo il riposizionamento nei segmenti alti e pregiati dei mercati internazionali, certe scorciatoie non solo non sono efficaci, ma anzi sono contaminanti e paralizzanti; non sono soltanto una zavorra per il sistema produttivo sano, quello che esprime le eccellenze vincenti, ma sono addirittura una polluzione rispetto ad esso.
Vi è anche un’altra sfida: quella della complessità. Qui vi erano state tentazioni diverse. Un’eccessiva enfasi attribuita al contratto unico lasciava, ad esempio, immaginare che l’idea della risposta competitiva accennata fosse di tipo semplificatorio, come se in qualche modo si volesse sfuggire alla sfida e alla drammatica complessità non solo del contesto competitivo internazionale, ma anche del concreto atteggiarsi delle nostre strutture produttive, le quali hanno nell’Occidente industriale una loro invincibile specialità: la dominanza delle piccole imprese è soprattutto italiana; la presenza di una pubblica amministrazione tanto arretrata è tipicamente italiana; un così elevato tasso manifatturiero è tipicamente italiano; un così alto tasso di vocazione all’export è tipicamente italiano.
Bisogna rispondere alla complessità con la pluralità, con una strumentazione particolarmente articolata ed organizzata. Credo che il provvedimento in esame, nella sua pluralità, risponda alla complessità di quel mercato del lavoro che deve andare virtuosamente a regolare facendone un booster possibile di competitività, agganciando la ripresa e facendo sì che dalla ripresa sia generata occupazione buona, di qualità, regolare e in ogni caso occupazione, e in qualche modo consentendo di trasformare significativamente sviluppo ed occupazione.
Non ci può sfuggire che vi è anche una sfida politica. Pensate, illustri colleghi, che in una situazione analoga, nel 1992, cioè in un quadro di straordinaria turbolenza finanziaria e di clamorosa delegittimazione della politica, la risposta che fu data fu esattamente il contrario di quella che oggi stiamo sperimentando. All’epoca vi fu un’esplicita supplenza delle parti sociali rispetto ai partiti: con il cosiddetto protocollo Amato del 31 luglio 1992 e con il successivo protocollo Ciampi del 20 luglio del 1993 le parti sociali esercitarono la supplenza rispetto ai partiti. Questa volta le parti sociali sono in qualche modo uscite dalla partita il 23 marzo scorso. Da allora la partita è condotta direttamente, con grande responsabilità e generando frutti maturi, dai partiti. Dai partiti! In Commissione sono stati approvati emendamenti negoziati dai partiti della maggioranza e dai partiti della maggioranza, attraverso i loro relatori, con il Governo. È una novità che anche dal punto di vista politico non giudicherei così secondaria.
Infine, signor Presidente, onorevoli colleghi, è anche una sfida civile nel momento in cui risorge il terrorismo a dieci anni dal martirio di Marco Biagi. Nel momento in cui esiste una situazione di evidente lacerazione di valori di riferimento della nostra Nazione; nel momento in cui comportamenti feroci, sciagurati, dissennati tornano ad occupare bruscamente e brutalmente le cronache, la nostra capacità di dare una risposta eticamente compatta, tutti insieme, credo diventi cruciale. E quanto poco questo sia banale e quanto questo influenzi anche il concreto articolarsi dei contenuti del provvedimento è dato da una riflessione: in Italia non si sono mai avute riforme bipartisan in un ambito come quello del lavoro, che invece si connota per la sua tradizionale, spesso cupa e spesso fosca, divisività.
Saremo chiamati tra poco ad approvare la prima riforma organica del mercato del lavoro adottata con un tasso così alto di consenso parlamentare che attraversa forze politiche che su questo tema fino a ieri, spesso anche aspramente, si dividevano. E lo sforzo che abbiamo dovuto fare tutti insieme è stato quello di evitare che le diverse prospettazioni di interesse generassero uno stallo, un blocco: riuscire ad essere, nel contemperamento delle diverse prospettive, propulsivi. Io credo che ci siamo in larga misura riusciti.
Velocemente, per non rubare tempo al mio amico senatore Treu, dirò dove rivendichiamo la qualità del provvedimento e anche qui dirò cose forse un po’ controcorrente.
Ritengo che la riforma dell’articolo 18 sia una riforma seria che oggi consente di allineare la regolazione lavoristica del nostro Paese alle regolazioni dei migliori competitori dell’OCSE con i quali quotidianamente ci misuriamo sui mercati. Ciò avrà due singolari benefici: il primo è quello di evitare una stortura del sistema competitivo italiano per la quale le imprese erano incentivate a investire sul loro nanismo. Infatti, essendo troppo evidente il vantaggio competitivo di restare abbarbicati alla microdimensione del «sotto 15 dipendenti», vi era un incentivo a non crescere, ma oggi nell’arena competitiva integrata, internazionalizzata e globalizzata il nanismo è un deficit competitivo. Ancor peggio, è un effetto distorsivo perché in qualche modo l’imprenditore veniva incentivato ad investire precipuamente sul processo, sull’impianto e sulla tecnologia labour killing anziché sul prodotto. Ma se è vero quel modello competitivo che abbiamo testé illustrato, quello cioè che vede vincente il sistema Italia quando concentra la sua azione sul prodotto, incentivare l’investimento sul processo – al di là delle sue esigenze di qualificazione tecnologica, ma solo in prospettiva labour killing – è un altro errore che ha gravemente compresso le capacità di sviluppo della qualità competitiva del nostro Paese.
Quanto alla flessibilità in entrata, l’equilibrio è stato raggiunto dopo un lavoro molto intenso e profondo. Oggi possiamo dire di aver salvaguardato la tradizione italiana che, nata con il pacchetto Biagi del 1997 e condensata con la riforma Biagi del 2003, consente oggi la disponibilità di strumenti particolarmente ricchi, ben modulati e ben modellati per fare buona e sana flessibilità in entrata. Oggi, ad esempio, ci siamo concentrati; oggi è disponibile una prova lunga di 12 mesi a causale. Oggi c’è la possibilità per le imprese impegnate in condizioni organizzative complesse – lo start up, il salto tecnologico, la nuova commessa – di avere una regolazione del contratto a termine meno rattrappente. Oggi abbiamo fatto in modo che le piccole imprese sotto i 10 dipendenti possano avere libero accesso all’artigianato senza essere vincolate all’imponibile di manodopera. Oggi abbiamo ricostituito l’agibilità del job on call, del lavoro a chiamata, così importante per alcuni settori come il turismo, per i ragazzi sotto i 25 anni e per i collaboratori più maturi sopra i 55. Abbiamo ripristinato il voucher nel settore del commercio, ancora una volta pensando alle esigenze indispensabilmente proattive su questo versante e in questa direzione del turismo. Abbiamo migliorato il trattamento contributivo del lavoro stagionale e abbiamo fornito una soluzione chiara sulle partite IVA.
Già oggi, laddove si ritenga sussistente dietro lo schermo opaco della partita IVA un rapporto di lavoro subordinato, la sanzione è la conversione forzosa del rapporto falsamente professionale in rapporto di lavoro subordinato, con decorrenza ex tunc. Abbiamo stabilito dei criteri, uno dei quali è chiarissimo: in tutte le ipotesi di percorso professionalmente adeguato, di percorso formativamente adeguato e di redditualità disponibile adeguata, abbiamo scudato le partite IVA, introducendo dunque un elemento di chiarezza.
L’ultima battuta, su cui mi permetto di concludere, attiene al fatto che, per la prima volta, abbiamo dato organicamente applicazione ed attuazione all’articolo 46 della Costituzione con un provvedimento che introduce forme di incentivo per la partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. Colleghi, questa è una battaglia che mette insieme tutte le diverse culture del Novecento: nella partecipazione c’è la cultura del personalismo cattolico e sembra quasi non accidentale la beatificazione, il 29 aprile, di un maestro del pensiero economico cattolico come Toniolo. Qui ci sono il liberalismo ben temperato, la destra sociale nazionale, il riformismo patriottico, la sinistra morandiana dei consigli di gestione. Il tema della partecipazione rappresenta una sorta di pacificazione delle culture del Novecento e la loro capacità di ritrovarsi, unite e concordi, in una cultura che trasforma l’antagonismo in agonismo e che fa dell’impresa la traiettoria comunitaria che guida lo sviluppo complessivo del Paese e le persone che lo abitano, con le loro storie, verità, tradizioni ed autenticità. Questa straordinaria capacità di costruire una concordia non zuccherosa, ma ruvida e consapevole credo sia importante.
Anche il generale Ezio, quando fu chiamato a fermare gli Unni, non fu chiamato dai suoi amici. Aveva fatto la guerra civile con gli altri generali di Galla Placidia, ma non ebbe esitazioni: scelse la strada della sua identità e nei Campi Catalaunici, nel 451, salvò l’Occidente. Credo che, insieme, possiamo salvare la nostra Nazione. (Applausi dai Gruppi PdL, PD, UDC-SVP-AUT:UV-MAIE-VN-MRE-PLI-PSI, CN:GS-SI-PID-IB-FI e Per il Terzo Polo:ApI-FLI. Congratulazioni).

TREU (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TREU (PD). Signor Presidente, signora Ministro, colleghi, anche io, come il collega Castro, con cui ho condiviso questi lunghi giorni, collaborando strettamente, comincio il mio intervento sottolineando come siamo arrivati qui: un lungo e difficile lavoro di preparazione e di elaborazione da parte del Governo con le parti sociali (faticoso, ma utile), a cui si è poi aggiunta una mediazione dei vertici dei partiti combinazione alquanto originale, ma utile nella nostra esperienza. Inoltre (questo ci riguarda più da vicino), c’è stato un lavoro intenso del Parlamento sul prodotto che ci è pervenuto, senza stravolgerlo, ma arricchendolo e migliorandolo.
Sottolineo questo perché il risultato è positivo ed è stato raggiunto con un metodo: dopo l’incontro e il confronto esterno c’è stato anche un lavoro comune del Parlamento, che ha dimostrato così di essere utile, anzi utilissimo, contrariamente a quanto si dice. Per tutti e due questi aspetti, la politica – in questo caso penso si possa dire la politica fattiva – ha dimostrato di essere presente, e questo non è uno dei minori meriti del nostro lavoro.
E vengo alla seconda sottolineatura. Anche qui abbiamo dovuto tenere insieme in questi giorni, ma anche prima, come sempre avviene in una materia come quella del lavoro, posizioni e sensibilità diverse su una tematica che è altamente delicata perché coinvolge centinaia di migliaia di persone e perché in Italia è sempre stata caricata di grandi tensioni, vere, radicate, ma talora anche con overdose di ideologio. Mi pare, invece, che il lavoro che abbiamo fatto è stato di vera analisi, di compromesso positivo e, direi, di riformismo. Il giudizio complessivo è positivo anche per questo metodo e deve essere un giudizio complessivo, perché la riforma è molto ampia e va valutata nella sua ampiezza, non concentrandosi, come purtroppo è accaduto spesso non solo sulla stampa, ma anche nelle nostre polemiche, su singoli punti, compreso l’articolo 18, che è stato assolutamente troppo enfatizzato sia da una parte che dall’altra. Mi sembra che questo lavoro, che abbiamo terminato per questa tappa, sia in grado di dare elementi – e lo discuteremo anche insieme – per questo giudizio positivo.
Il messaggio forte di questa riforma è una razionalizzazione delle regole del mercato del lavoro, non del mercato del lavoro. Questo, infatti, ha bisogno di fatti e di politiche per essere migliorato. Abbiamo lavorato, quindi, sulle regole nell’ottica europea della flessicurezza o flexicurity. Lo abbiamo fatto perché siamo in Europa e non perché ce lo impone l’Europa e anche perché crediamo che questo tipo di equilibrio tra flessibilità e sicurezza sia quello che serve nel mercato del lavoro, in un’economia turbolenta molto difficile che mette in crisi le sicurezze vecchie, ma che ha bisogno di sicurezze nuove e che richiede flessibilità inevitabilmente, ma anche regole per la stessa flessibilità.
Noi siamo convinti che questa sigla è una scommessa – non basta fare una legge buona, come reputiamo quella che stiamo facendo – che indica una strada o, come l’ha definita il collega, l’highway, la via alta verso la produttività e l’efficienza che si basa su un mercato del lavoro meglio regolato, più sicuro e, aggiungo, partecipativo. Non a caso abbiamo voluto mettere in testa al provvedimento, nell’articolo 1, e poi riprenderla nel prosieguo l’idea che la partecipazione dei lavoratori nell’impresa e la democrazia economica, che è un concetto più ampio, c’entrano con il mercato del lavoro. Questo non riguarda solo come ci si entra e come se ne esce (spesso siamo polarizzati tra questi due estremi): è come ci si sta dentro, come si gestisce la mobilità, come si fanno i rapporti tra le parti individuali e collettive. Per questo abbiamo messo il punto centrale della partecipazione in testa e all’interno del provvedimento.
Io sottolineo tre punti che sono la conseguenza di questa impostazione. Il primo riguarda il motivo per il quale abbiamo riconfermato la soluzione raggiunta al vertice sull’articolo 18. Avremmo potuto lavorarci sopra, ma non abbiamo ritenuto di farlo, non solo perché è stata una mediazione alta, ma perché questo è un compromesso europeo per eccellenza. Ho studiato parecchio la flessibilità in entrata e in uscita, e l’Italia, anche secondo l’indicazione dell’OCSE, ha una buona flessibilità come regole. Adesso noi l’abbiamo migliorata per quanto riguarda le pratiche, perché abbiamo una regolazione spesso trasgredita nei fatti. L’aver fatto – e confermato -questa mediazione sulle regole dell’uscita sta proprio in questo. Non è stato smantellato il senso dell’articolo 18, che è quello di essere una deterrenza contro gli abusi (questo c’è, perché purtroppo gli abusi ci sono), ma abbiamo offerto una soluzione sui rimedi che è più articolata, come in tutti i Paesi e non solo in Germania. A seconda della diversità delle situazioni, il giudice ha a disposizione più rimedi, e non l’alternativa secca tra reintegro o niente. Ora c’è il reintegro, un possibile indennizzo o, se non ci sono motivi, la conferma del licenziamento. Guardate, si discute molto dei giudici e di come gestiranno la situazione: ebbene, questo è certamente un aspetto molto importante, ma la loro responsabilità deve anche essere aiutata.
Credo che questa soluzione realistica e modulata faciliterà anche le valutazioni dei giudici che, invece di trovarsi davanti all’alternativa secca o tutto o niente, avranno a disposizione strumenti analoghi a quelli dei loro colleghi di altri Paesi, aiutati anche in questo – e lo sottolineo perché non si discute spesso di tali temi importanti – dalla velocizzazione del processo del lavoro e dalla previa procedura di conciliazione, istituto civilissimo che può sfoltire moltissimo l’overdose di litigiosità.
Questa è una parte importante che non va messa in contrapposizione con la parte relativa alla flessibilità in entrata, in base alla deformazione diffusa per cui dare più flessibilità in uscita significa darne un po’ meno in entrata. Questo è un modo di concepire il mercato del lavoro assolutamente strumentale o rozzo. In realtà, la flessibilità deve essere ben regolata in entrata ed in uscita: questo è l’equilibrio.
Insisto: siamo convinti che la flessibilità regolata bene, senza abusi, come abbiamo cercato di prevenire con alcuni paletti, è un valore, così come è un valore la stabilità se non diventa stupidità.
Mi fa piacere che l’abbia detto anche il Ministro, concludendo i lavori in Commissione: la stabilità è un valore perché serve all’affidamento fra le parti, ad investire nelle persone, alla formazione. Naturalmente non si tratta del posto fisso, evocato come un fantasma.
Abbiamo giustamente equilibrato le due parti. E sottolineo un aspetto mai evidenziato, concernente i molti meccanismi introdotti da questa riforma: le regole che prevengono gli abusi e i costi differenziati per i lavori brevi rispetto ai lavori lunghi. Questi due o tre strumenti sono sufficienti, o comunque stimolano le imprese che vogliono essere virtuose (purtroppo non lo sono tutte) quelle che vogliono operare sul mercato in modo trasparente, ad adottare strumenti opportuni, anche forme diverse da quelle del lavoro a tempo indeterminato, quindi anche con un buon uso del lavoro autonomo e semiautonomo.
Questo è il senso complessivo che abbiamo voluto dare. In più, abbiamo aggiunto che la flessibilità va valutata e va anche retribuita. Di qui il senso che abbiamo voluto dare al compenso di base per i collaboratori a progetto, che rappresenta l’inizio di un percorso che come Partito democratico (ma mi auguro sia condiviso da tutti) vorremmo proseguire verso una forma di salario di base per chi lavora, come in tutti i Paesi (senza arrivare al salario di cittadinanza), degno, come recita l’articolo 36 della Costituzione.
Vi è un altro punto che viene poco sottolineato: quando si dice che l’apprendistato in questo provvedimento è molto valorizzato, che deve essere un modo per entrare nel mercato del lavoro per i giovani, non si dice una cosa astratta. È lo strumento che tutta Europa, nelle parti migliori, ha usato perché i giovani vengano guidati da quella fase della vita che è la loro formazione verso il difficile mercato del lavoro. Guardate che questo è l’investimento maggiore che abbiamo fatto in tutto il disegno di legge, anche dal punto di vista dei soldi, che sono pochi. E infatti ne sono rimasti pochi per gli ammortizzatori sociali. La maggior parte delle risorse è stata destinata a tale scopo per significare che l’apprendistato deve diventare veramente la forma principale di aiuto per i giovani, e quindi deve assorbire anche le forme anomale esistenti.
Il conto è presto fatto: adesso gli apprendisti sono tra 450.000 e 500.000. Se si fanno funzionare gli incentivi, con il rapporto tre a due introdotto (che ci auguriamo sia usato bene), potremo arrivare a 700.000-800.000: il che significa assorbire larga parte delle forze giovanili che ci auguriamo usciranno formate bene.
Un terzo punto dell’equilibrio della legge riguarda gli ammortizzatori sociali. Questo era il punto di maggiore distanza tra le regole e le pratiche italiane rispetto al modello europeo. Credo che lo sappiamo, sono anni che ne parliamo. Si è fatto un passo avanti verso il modello europeo, verso una universalizzazione degli ammortizzatori, un piccolo passo, ed è l’aspetto che personalmente ritengo più debole di tutto il complesso. Naturalmente il limite è stato di natura finanziaria, lo sappiamo tutti. Però ci tengo a dire che, anche per la parte più debole, che è quella delle tutele degli ammortizzatori per i lavoratori precari, anche in quel caso, pur essendo limitata la prestazione che viene data a chi perde il lavoro, c’è un’indicazione che spero quanto prima venga raccolta. Si dice: verifichiamo come va in un periodo sperimentale questa forma debole – ripeto – in vista di valutare, alla fine del periodo sperimentale, che non è fra cinquant’anni ma fra un paio d’anni, se si può – noi riteniamo che si debba – andare verso una forma effettivamente di ammortizzatori universali.
Questo non solo è un punto fondamentale per l’inclusione, perché un precario che viene lasciato «a piedi» e senza niente è difficile che si includa, ma è anche un punto essenziale per la mobilità guidata in un momento di transizione, di crisi ricorrente. Gli ammortizzatori fatti bene, attivi, aiutati da formazione e da servizi sono uno strumento essenziale per una buona mobilità, di cui l’Italia ha grande bisogno.
Faccio due brevi accenni a punti più specifici che si sono persi di solito nel dibattito esterno, ma non da noi, che li abbiamo seguiti molto: come dicevo in precedenza, la partecipazione e la democrazia economica, ma anche la bilateralità. La valorizzazione della bilateralità a fini di strumento di tutela è un punto essenziale in chiave sussidiaria di un modello sociale partecipativo che ci può aiutare soprattutto in questo momento; direi che è proprio un pegno, insieme, di civiltà e di produttività.
C’è un migliore disegno normativo sulle politiche dei servizi dell’impiego, ma ho visto susseguirsi almeno sette-otto disegni normativi dei servizi all’impiego, e sempre con fatica, perché il vero problema non è disegnarli bene (e qui ci abbiamo provato), ma è farli funzionare, il che dipende essenzialmente dalle autonomie territoriali – le Regioni, le Province o chi per esse – e le parti sociali: quindi, è una scommessa.
L’ultimo punto richiama invece un impegno ancora da costruire. Abbiamo dei piccoli punti sul lavoro femminile, in realtà un impegno del Ministro di affrontare in modo organico questo che è un aspetto decisivo per le politiche del lavoro (non solo per le donne, ma per le politiche del lavoro del Paese): questo è l’impegno forse più immediato. Quanto ai giovani, quello che abbiamo fatto sulla precarietà, quel poco sugli ammortizzatori, è fatto in larga misura per le donne e i giovani (perché le donne giovani sono quelle più esposte).
Naturalmente, tanto per non lasciare senza da fare il Ministro, stanno arrivando i problemi delle politiche attive per le persone cosiddette anziane, perché l’età si allunga e avremo un problema non di come espellere dal mercato del lavoro i cinquantenni, ma di come fare in modo – come si sta facendo anche in altri Paesi – di mostrare che sono ancora attivi, che possono essere utili, che le imprese possono adeguarsi per farli lavorare. È un problemino non da poco, anche perché abbiamo il problema di sistemare un po’ di esodati, che è un altro dei punti dolenti.
Concludo dicendo, come ha sottolineato il collega Castro, che l’auspicio di una rapida approvazione di questo provvedimento non è un modo di dire ma è l’espressione di un’urgenza – sottolineo un’urgenza – del Paese, e del Paese nel contesto europeo. In un momento come questo, di grande difficoltà, di tensione sociale, un segno come questo è importante, e tutti noi siamo chiamati a darlo.
Per ora abbiamo fatto un bel passo avanti; altri ne dobbiamo fare. Sono sempre stato abituato a lavorare in team o, se preferite, in un contesto di collaborazione, e devo dire che di questi passi (debbo ringraziare in modo specifico tutti i colleghi della Commissione, e anche l’opposizione, che ha lavorato con grande spirito costruttivo) non ne ho visti molti in questo Parlamento; ne ho visto uno in questo momento, e vi ringrazio. (Applausi dai Gruppi PD, PdL e dei senatori Astore e Sbarbati).

CARLINO (IdV). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARLINO (IdV). Signor Presidente, signora Ministro, colleghi, il provvedimento che oggi presentiamo all’esame dell’Aula continua ad essere caratterizzato da troppe ombre, poiché rimane sostanzialmente identico al testo originario presentato all’esame della Commissione lavoro.
Molti punti controversi, più volte e da più parti segnalati, che avrebbero potuto e dovuto essere modificati non sono stati toccati, purtroppo; altri che, al contrario, costituivano un seppur timido passo avanti sono stati sacrificati alla logica dello scambio politico tra le forze che sostengono il Governo. Uno scambio politico che peraltro sembra essersi risolto in un vittoria per una sola delle parti.
Nel complesso, tutta la riforma realizza un arretramento delle tutele, e non solo con riguardo all’articolo 18 del cosiddetto Statuto dei lavoratori, ma anche con riferimento ai contratti precari (quella che in modo eufemistico viene chiamata la flessibilità in entrata), i licenziamenti collettivi e gli ammortizzatori sociali.
Se, come credo sia certo, il provvedimento verrà approvato con l’ennesima fiducia, quindi così com’è, nel migliore dei casi risulterà inutile, in particolare, per la lotta al precariato, mentre rischia seriamente di essere devastante per quanto riguarda i diritti dei lavoratori.
Dalla mediazione tra il Governo e i partiti della maggioranza è uscita una riforma del lavoro pasticciata, con nessuna tutela in più in uscita e un’ulteriore diminuzione delle restrizioni all’abuso di contratti temporanei rispetto alla proposta iniziale. Ci sarebbe voluto molto più coraggio nella limitazione delle forme di lavoro parasubordinato e nel percorso verso la stabilità di chi cerca lavoro.
Quanto è stato approvato guarda ancora meno dalla parte dei giovani rispetto al progetto iniziale e questo proprio mentre i dati sui redditi e la ricchezza delle famiglie confermano l’acuto stato di disagio sociale dei giovani e il crescente ruolo di ammortizzatore sociale esercitato dalle famiglie.
Il compromesso che si è concretizzato ci consegna un mercato del lavoro che non risolve il suo dualismo tra le forme di contratto che garantiscono stabilità e quelle che creano precarietà, e che aumenta sia il cuneo fiscale che la complessità della procedura di licenziamento.
Se veramente questa riforma fosse stata «in una prospettiva di crescita» (come recita pomposamente il titolo), piuttosto che andare a ledere i diritti acquisiti dei lavoratori con una incomprensibile riforma del cosiddetto Statuto dei lavoratori, avrebbe dovuto ridurre i costi del lavoro, per i quali deteniamo in Europa un triste primato, come certificato pochi giorni fa dai dati Eurostat.
Per ridurre davvero il dualismo contrattuale ci sarebbe voluta una netta limitazione delle forme di lavoro parasubordinato e l’introduzione di un percorso verso la stabilità.
La priorità assoluta rimane, per il nostro Paese, quella di prosciugare il parasubordinato offrendo un sentiero verso la stabilità a chi cerca lavoro, a qualsiasi età. Questo obiettivo è stato, tuttavia, sacrificato a una confusa riforma dell’articolo 18 per tutti i lavoratori, che ha finito per trasmettere ulteriore ansia ad un Paese già in forte recessione.
Per quel che riguarda i contratti, continua, innanzitutto, a non esserci un reale canale di ingresso nel mondo del lavoro con un percorso verso la stabilità.
In base alla normativa proposta, non può esserlo l’apprendistato. Al termine del periodo formativo si può essere infatti licenziati senza alcun compenso. La pur positiva norma che vieta ai datori di lavoro di assumere ulteriori apprendisti se non se ne stabilizza almeno il 50 per cento di quelli già assunti è stata annacquata con le modifiche apportate in Commissione ed è ora, di fatto, facilmente aggirabile.
Discutibile poi il mantenimento a 15 anni dell’età minima per diventare apprendisti: una norma che di fatto diventa un aggiramento dell’obbligo scolastico fino ai 16 anni.
Sicuramente peggiorativa sul piano concreto, e molto pericolosa su quello dei principi, è la soppressione dell’obbligo di indicare la causale nel primo contratto a tempo determinato di cui all’articolo 3.
La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, di cui al decreto legislativo n. 368 del 2001, venne introdotta nel nostro ordinamento per consentire il recepimento della direttiva europea 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
La disposizione dell’articolo 1 del suddetto decreto, secondo cui «è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» nasceva proprio dall’esigenza (espressamente indicata nella direttiva europea), di evitare che, attraverso il ricorso ad una successione reiterata di contratti di lavoro a tempo determinato, fosse possibile aggirare, fraudolentemente, la regola generale secondo cui, per far fronte ad esigenze permanenti, il datore di lavoro deve sempre ricorrere al contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre il contratto a tempo determinato rappresenta un’eccezione cui ricorrere soltanto a fronte di esigenze temporanee ed eccezionali.
Al contrario, l’articolo 3 introduce una pericolosissima norma che, se approvata, consentirà alle imprese di aggirare agevolmente tale principio comunitario, consentendo loro di ricorrere al contratto a tempo determinato non in ipotesi eccezionali o temporanee, legate ad esigenze oggettive e riscontrabili, bensì in qualsiasi occasione, anche legata ad esigenze permanenti, come ad esempio la carenza strutturale di organico, in totale contraddizione con quanto espressamente perseguito dalla direttiva comunitaria. Questo perché la previsione di cui all’articolo 3, lettera b), che consente di non indicare la causale significa inequivocabilmente che il datore di lavoro, in futuro, potrà liberamente stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per qualsiasi esigenza, anche per far fronte al normale fabbisogno ordinario di personale, purché ciò avvenga sempre con un diverso lavoratore. E infatti, non a caso, la norma si preoccupa di estendere tale previsione anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, in modo che il datore di lavoro in cerca del successivo lavoratore precario con cui stipulare il nuovo primo contratto possa liberamente attingere dalla vastissima platea di precari che offrono le agenzie interinali presenti sul nostro territorio.
In Commissione tuttavia la norma non solo non è stata corretta, ma è stata, secondo noi, ulteriormente aggravata con la previsione di ulteriori eccezioni nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato avvenga «nell’ambito di un processo organizzativo determinato: dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo». Cioè, di fatto, un numero indefinito di casi.
Per quanto concerne l’associazione in partecipazione (altra fonte di numerose situazioni di abuso), anziché limitarne l’utilizzazione alle associazione tra familiari entro il primo grado o tra coniugi, come annunciava il documento dello scorso 23 marzo, la norma è stata a dir poco ammorbidita: varrà solo oltre il terzo grado di parentela e tre associati.
Ma la disposizione che forse più di altre dimostra quanto questa riforma sia stata svuotata di quel poco di positivo che portava è l’articolo 9, letteralmente stravolto e svuotato dagli emendamenti dei relatori.
La versione originale dell’articolo 9 prevedeva infatti che le prestazioni lavorative rese da persona titolare di partita IVA si presumono false quando ricorrono almeno due delle seguenti tre condizioni: cioè quando la collaborazione con lo stesso committente (o più soggetti se riconducibili alla medesima attività imprenditoriale) duri più di sei mesi nell’arco di un anno; quando i ricavi del collaboratore con il medesimo committente ammontino a più del 75 per cento del proprio fatturato; quando il collaboratore utilizzi una postazione di lavoro presso il committente.
Con l’emendamento dei relatori la durata della collaborazione con lo stesso committente viene elevata a otto mesi nell’arco di un anno; l’ammontare dei ricavi del collaboratore con il medesimo committente è elevato a più dell’80 per cento del proprio fatturato; viene poi specificato che la postazione che il collaboratore utilizza presso il committente deve essere fissa. E come se non bastasse, la presunzione di abuso non sussiste (cioè tocca al lavoratore dimostrarne l’esistenza) quando la prestazione «sia connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività». Ma, sinceramente, qualcuno sa spiegarci cosa significhino frasi come questa?
Non è stata invece rivista quella che era fin dal principio la rigidità principale della norma: l’articolo 9 infatti prevede che una volta avvenuta la verifica in sede giudiziale della ricorrenza delle condizioni che fanno scattare la presunzione di abuso, il giudice debba obbligatoriamente qualificare il rapporto di lavoro sempre come collaborazione a progetto. Ciò naturalmente non è corretto, signor Presidente, in quanto si pone inevitabilmente in contrasto con principi consolidati all’interno dei nostro ordinamento giuridico. L’articolo 9, inoltre, attribuisce al datore di lavoro la possibilità di fornire prova della genuinità del rapporto di lavoro autonomo, ma non prevede, invece, alcuna possibilità per il lavoratore di provare che in realtà il rapporto di lavoro sia riconducibile al lavoro subordinato, né che il giudice possa d’ufficio qualificarlo come tale. Ciò, in palese violazione di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 121 del 1993, e cioè che spetta al giudice qualificare il rapporto di lavoro ed il legislatore, anche volendo, non potrebbe negare la qualifica di rapporto di lavoro subordinato ad un rapporto di lavoro che ne presenti le caratteristiche oggettive.
In generale, per quanto riguarda la prima parte del disegno di legge in esame, si può dire che se già il testo originario conteneva differenze (seppur relativamente marginali) rispetto al documento presentato dal Governo il 23 marzo (che era poi il risultato del tavolo della concertazione con le parti sociali del Paese), le modifiche in Commissione hanno indicato la chiara volontà di allentare ulteriormente i vincoli nell’abuso di contratti temporanei. E dato che i controlli in questo campo – come sappiamo bene – sono a dir poco lacunosi, ben altro avrebbe dovuto essere il messaggio.
Se l’intenzione originaria era quella di porre un freno al vergognoso fenomeno delle cosiddette finte partite IVA e in generale alla diffusione del precariato, possiamo dire tranquillamente che questo obiettivo si è volontariamente rinunciato.
Passiamo ai licenziamenti, che costituiscono la tematica più spinosa di questo disegno di legge.
Si è parlato a lungo, prima di questo disegno di legge, di «modello tedesco» per la disciplina dei licenziamenti. L’impressione è che il ministro Fornero abbia perseguito piuttosto un modello «fai da te». Nessuna delle norme proposte su come regolarsi qualora risultino ingiustificati i motivi addotti dal datore di lavoro vengono davvero praticate in Germania. Farebbero anzi sobbalzare dall’indignazione ogni giudice del lavoro tedesco.
Il richiamo a modelli stranieri serve solo a gettare fumo negli occhi del pubblico, vantando l’una o l’altra rispettabile ascendenza. Un gioco fuorviante, se non si precisano le norme a cui ci si riferisce. Se è vero che anche il diritto del lavoro tedesco non è rimasto immutato nel tempo in Germania almeno non si è parlato di «manutenzione» quando si smantellavano i diritti.
L’attuale modello tedesco è davvero molto più vicino a quanto previsto in Italia dal vigente articolo 18 dello statuto dei lavoratori di quanto vogliano far credere il Governo e i partiti che lo sostengono.
Venendo al merito, la materia è stata affrontata partendo dal concetto che i licenziamenti (individuali) costituiscano una triade: licenziamento discriminatorio, licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Rispetto a questa triade, si è posto il problema della sanzione unica o alternativa in caso di illegittimità.
L’impostazione governativa era, per così dire, «a scalare»: reintegra per il licenziamento discriminatorio, alternativa tra reintegra e indennizzo economico a scelta del giudice per il licenziamento disciplinare e solo indennizzo monetario per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Era chiaro che il vecchio sistema asimmetrico tra licenziamento disciplinare ed economico non poteva funzionare, essendo pur sempre il datore di lavoro, nel momento iniziale, a stabilire che il licenziamento sia disciplinare o economico, con l’ovvia propensione per quello che, in caso di illegittimità, non prevede la reintegra.
Questo argomento ha abbagliato tutti, e il fatto che l’attuale formulazione costituisca una vittoria dell’opinione progressista nasconde, in realtà, una scarsa sostanza.
Viceversa sono sfuggiti all’attenzione due importantissimi argomenti, e cioè che l’articolo 15 tratta anche i licenziamenti collettivi, introducendo un gravissimo peggioramento della disciplina, e che i licenziamenti disciplinari non sono affatto regolati nel senso che l’alternativa tra reintegra e indennizzo possa essere applicata indifferentemente, perché anzi la reintegra può essere applicata solo in veramente pochi casi (essenzialmente teorici), mentre nella grande maggioranza delle evenienze il giudice è tenuto ad applicare solo l’indennizzo.
Insistiamo, e continueremo ad insistere, su questi due aspetti perché rendono questa riforma davvero inaccettabile.
Per quel che riguarda i licenziamenti collettivi, con questa nuova norma la sanzione per le violazioni procedurali sarebbe unicamente quella economica, mentre la sanzione di reintegra sarebbe limitata alla violazione dei soli criteri di scelta dei licenziati.
L’articolo 15, cioè, da un lato rende sanabile, con un accordo sindacale eventualmente raggiunto, le irregolarità della comunicazione d’apertura della procedura e, dall’altro, sottopone alla sola sanzione di indennizzo economico le irregolarità della comunicazione finale (di cui all’articolo 4 della legge n. 231 del 1991) che costituisce, per così dire, il rendiconto dell’utilizzo dei criteri di scelta dei licenziati, ed è dunque un documento delicatissimo, sulla cui regolarità si è molto spesso giocata la sorte delle procedure di esubero.
Chiunque abbia un minimo di esperienza giudiziaria sa che, specialmente negli ultimi anni, la vera difesa contro i licenziamenti collettivi ha riguardato essenzialmente le molte possibili violazioni procedurali; quindi, riformare in tal senso equivale a togliere, nella maggioranza dei casi, la reintegra per i licenziamenti collettivi. Il che – va aggiunto – ridimensiona ancora i presunti successi della reintroduzione della reintegra per i licenziamenti economici. Detto in breve con un esempio: il datore di lavoro che fa cinque licenziamenti invece di quattro, ossia un licenziamento collettivo al posto di quattro licenziamenti individuali, si sottrarrebbe al rischio della reintegra, perché rientrerebbe nella più lassista disciplina dei licenziamenti collettivi.
Per quel che riguarda i licenziamenti disciplinari, il problema è che la reintegra è prevista nel caso si accerti che il fatto contestato al lavoratore non esista in via assoluta, oppure, se esistente, che per esso la disciplina collettiva preveda espressamente solo una sanzione conservativa (la multa o la sospensione) o, infine, che il lavoratore risulti estraneo al fatto.
Ma l’ipotesi di gran lunga più frequente, nelle controversie sui licenziamenti disciplinari, è quella della mancanza di proporzione tra infrazione e sanzione, e, poiché si é al di fuori di quei casi, risulta sanzionata solo con l’indennizzo economico, ferma restando l’efficacia del licenziamento, che, dunque, sarà di gran lunga la soluzione più frequente della lite.
Voglio dire che nove volte su dieci nei licenziamenti disciplinari si discute di un fatto che astrattamente potrebbe dar luogo al licenziamento, ma che viene parzialmente giustificato da ragioni di contesto, ossia da attenuanti o esimenti (come nel caso del lavoratore che abbia commesso effettivamente un’insubordinazione, ma solo perché gravemente provocato).
Il caso del lavoratore accusato di un fatto che non ha commesso o addirittura di un fatto inesistente è poco più che un caso di scuola, e l’ipotesi che il datore di lavoro sia cosi sprovveduto da punire con il licenziamento un’infrazione che il contratto punisce solo con una sanzione minore, cioè la multa o la sospensione, è anch’essa un’ipotesi dì scuola.
La normalità delle controversie in materia disciplinare vede il ripetersi di casi abbastanza comuni, ma sono le circostanze, le premesse, le ragioni quelle che determinano poi in concreto la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento; quindi, la previsione di cui si parla non stabilisce affatto una semplice alternativa tra reintegro ed indennizzo economico, a discrezione del magistrato, perché, purtroppo, la situazione è ben diversa: il reintegro è previsto per casi limite e solo di scuola e l’indennizzo, invece, per la massima parte delle vere controversie.
In ogni caso, lasciare al giudice l’alternativa porterebbe ad una soluzione paternalistica che ridurrebbe ben presto la giustiziabilità dei licenziamenti illegittimi a macchia di leopardo, con tribunali che applicano prevalentemente il reintegro ed altri che invece applicano prevalentemente l’indennizzo.
Pertanto, anche questa disposizione è da rivedere totalmente, anche qualora si volesse mantenere la cosiddetta soluzione tedesca dell’alternativa tra reintegro ed indennizzo economico: diremmo, per ironia, che bisognerebbe ispirarsi alla vera disciplina di diritto tedesco, nella quale l’alternativa dell’indennizzo economico viene dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento, su istanza di una delle parti che alleghi comprovate ragioni di incompatibilità nella prosecuzione del rapporto.
Si può, così, giungere al punto che ha polarizzato l’attenzione del dibattito giuridico-politico, e cioè quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Anche la Confindustria ha gridato allo scandalo perché e stato reintrodotto come sanzione, anche in questo caso, il reintegro. Ma un osservatore un minimo avvertito del significato giuridico e della formula utilizzata nel testo della riforma lo intuisce subito che si tratta o di una finta, o di un’incomprensione, per la buona ragione che la sola ipotesi in cui il reintegro verrebbe disposto è quella di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Tutti comprendono, signor Presidente, che si è ancora una volta di fronte ad un’ipotesi di scuola: l’insussistenza della ragione addotta deve addirittura essere manifesta e quindi non ricavabile da indizi o deduzioni, ma palese: come a dire, ad esempio, che il datore di lavoro abbia portato a ragione del licenziamento la chiusura di un esercizio commerciale che è invece tuttora aperto, o un passivo del bilancio che invece indica un attivo e così via. Il che, francamente, non è credibile che avvenga. (Applausi di sollecitazione del senatore Coronella).
Insomma, se di vittoria si è trattato nella reintroduzione del reintegro, si è trattato davvero di una vittoria di Pirro.
In tutti gli altri casi di illegittimità è previsto esclusivamente l’indennizzo economico, nella solita forbice compresa fra 12 e 24 mensilità. Ma qui il problema più importante è quello di sapere quali sarebbero questi ulteriori casi e, soprattutto, se essi comprendono le ipotesi di licenziamento cosiddetto speculativo, cioè quelle in cui il licenziamento per motivo oggettivo non è connesso ad una difficoltà aziendale di tipo economico o organizzativo, ma solo alla ricerca di un maggior profitto a scapito del lavoratore, come nel caso tipico […]

PRESIDENTE. La prego di concludere, senatrice Carlino.

CARLINO, relatrice di minoranza. […] di esternalizzazione dei compiti svolti dai lavoratori licenziati con ricorso ad appalti a prezzi minori.Mi conceda altri due minuti, signor Presidente, per passare al tema degli ammortizzatori sociali. Mi faccia finire. Almeno il tempo di lamentarci, visto che non abbiamo molto spazio.

PRESIDENTE. Prego, continui pure.

CARLINO, relatrice di minoranza. Vi è anche il rischio che le «altre ipotesi» di illegittimità in cui, secondo la previsione normativa, vi sarebbe comunque un indennizzo economico si rivelino una sorta di insieme vuoto, anche perché lo stesso articolo 14 richiama il famigerato articolo 30 del cosiddetto collegato lavoro, il quale descrive il giustificato motivo oggettivo con riguardo a un disegno economico, produttivo e organizzativo di qualsiasi tipo, e comunque, in definitiva, sempre legittimo.
Il disegno di legge crea inoltre un quarto tipo di licenziamento individuale. Infatti, in caso di licenziamento invalido o per difetto di forma, tutto si ridurrebbe al pagamento di un indennizzo dimezzato rispetto a quello normale, salvo che il lavoratore chieda che si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso la controversia torna ad essere una normale controversia di licenziamento: ma su quale motivazione, ci chiediamo, visto che essa era mancata al principio? E chi deve sostenere l’onere della prova?
Alla fine, sembra che si sia di fronte ad una sorta di incredibile processo al buio, nel senso che, se il datore di lavoro non motiva il licenziamento, il lavoratore ha la scelta tra prendere un piccolo indennizzo o contestare un licenziamento di cui però non è stata data ufficiale motivazione.
Insomma, siamo di fronte ad una mostruosità giuridica che va semplicemente respinta in blocco.
Passo agli ammortizzatori sociali. (Commenti). So che l’intervento è lungo, ma come ho anticipato tale questione è quella più spinosa.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, permettete alla senatrice Carlino di terminare il suo intervento.

CARLINO, relatrice di minoranza. La riforma degli ammortizzatori e l’introduzione dell’ASpI cancellano la vecchia mobilità, pur non cancellando la cassa integrazione straordinaria e quella in deroga.
Si sostiene che con la riforma degli ammortizzatori sociali aumenterà la platea dei beneficiari ma, nonostante gli interventi operati in Commissione, è ancora tutt’altro che chiaro come questo avvenga, e soprattutto con quali risorse.
Nonostante le promesse, la cosiddetta mini-ASpI continua ad essere in tutto e per tutto l’indennità a requisiti ridotti oggi vigente. Era stato annunciato che sarebbe stata estesa a tutti i lavoratori a progetto, ma a questo annuncio non è stato poi dato alcun seguito.
Si è invece scelto di potenziare l’indennità una tantum per i parasubordinati che restano senza impiego, come previsto dall’articolo 35. Per i collaboratori a progetto e le finte partite IVA resta infatti in vigore la «mancia» introdotta dall’ex ministro Sacconi nel 2008, che attualmente vale mediamente 800 euro all’anno e che copre 9.500 lavoratori in tutto, a fronte di una platea di 125.000 potenziali beneficiari. L’articolo 35 disponeva nella sua versione originale la riduzione dell’importo, anche se con estensione a una platea più vasta.
Ora l’indennità viene rafforzata e dovrebbe essere portata a 8.000 euro (anche se la cifra non è del tutto chiara), ma solo come misura sperimentale per un triennio.
Il punto vero resta, tuttavia, un altro: come avevamo chiesto con interventi emendativi, e ribadiamo con uno specifico ordine del giorno, è necessario superare la logica delle indennità una tantum continuamente prorogate, ed allargare invece la copertura dell’ASpI a favore di tutti i precari.
Per quello che riguarda le politiche in favore delle donne, tanto sbandierate dal ministro Fornero, purtroppo si è fatto poco. Anziché essere una priorità, della riforma le misure a favore delle donne sono state relegate agli articoli 55 e 56. Ci aspettavamo un concreto investimento sull’apporto che le donne possono dare davvero alla crescita del Paese.
In Italia il tasso di occupazione femminile raggiunge circa il 43 per cento; al Sud scende al 30 per cento. Siamo lontani dell’obiettivo del Trattato di Lisbona.
Nell’ottobre 2010, il Parlamento europeo ha approvato una legge per proteggere le donne dal licenziamento a causa della maternità e garantire ai padri almeno due settimane di congedo obbligatorio.

PRESIDENTE. Senatrice Carlino, la prego di concludere il suo intervento.

CARLINO, relatrice di minoranza. Sto concludendo, signor Presidente.
Il congedo di paternità è presente in quasi tutti gli Stati europei per periodi di diversa durata: le «quote azzurre», sia nel congedo obbligatorio che in quello facoltativo, devono essere una misura che possa contribuire a cambiare l’esperienza dei padri e favorire la condivisione della cura dei figli.
Se il congedo obbligatorio e quello parentale saranno più condivisi da entrambi i genitori, ci saranno meno perdite di capitale umano e meno ragioni, per le imprese, di discriminare le lavoratrici.
La riformulazione dell’articolo 56, che stabilisce che «il padre lavoratore dipendente (…) ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno» e «può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi», è ben poco.
C’è da rimpiangere la formulazione originale di questo articolo. Era certamente insufficiente, ma almeno non era, come quella attuale, una presa in giro!
I voucher per l’impiego di baby-sitter o per gli altri servizi per l’infanzia, non possono compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto.
I tagli alle spese per gli asili nido implicheranno una minor occupazione (femminile), sia per gli effetti diretti sia per gli effetti indiretti.
Voglio infine concludere con il tema delle dimissioni in bianco. (Commenti dal Gruppo PdL).

PRESIDENTE. Colleghi, abbiate quantomeno rispetto per la relatrice di minoranza. Ho garantito alle opposizioni la massima disponibilità per il dibattito. È una relazione di minoranza e la senatrice Carlino ha diritto di concluderla.
Prego, senatrice.

CARLINO, relatrice di minoranza. All’articolo 55 si affronta il ripristino di una normativa di contrasto a questa odiosa pratica. Ma anche questo intervento, nonostante le varie proposte di modifica che sono pervenute da più colleghe, risulta ancora assolutamente insufficiente, in quanto non prevede, a differenza della normativa approvata a suo tempo dal Governo Prodi, delle specifiche garanzie sulla possibilità di verificare attraverso precisi requisiti, quali ad esempio la modulistica, la veridicità della dichiarazione di dimissioni.
Ricordo che alla Commissione lavoro è stato assegnato un nostro disegno di legge, a mia prima firma, che recepisce anche le indicazioni di una petizione popolare: un disegno di legge completo, che disciplina le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che prevede procedure che garantiscano la libertà di scelta e la tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici.
Signor Presidente, concludo ribadendo che siamo davanti ad un provvedimento in nessun modo condivisibile. Modificare le regole in modo così iniquo e insufficiente non significa riformare il lavoro, ma perseverare in una logica sbagliata, che porterà ad avere solo più precarietà e disoccupazione. (Applausi dal Gruppo IdV e del senatore Giuliano).

hh

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