PERCHÉ MARIO MONTI NON AMA LO STATUTO DEI LAVORATORI

IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SOSTIENE CHE UNA PARTE DEL NOSTRO SISTEMA DI PROTEZONE DEL LAVORO HA UN EFFETTO DEPRESSIVO SULL’OCCUPAZIONE E SULLA PRODUTTIVITÀ DEL SISTEMA ITALIA

Intervista a cura di Paolo Nessi per ilSussidiario.net, 14 settembre 2012

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Mario Monti, riferendosi allo Statuto dei lavoratori, ha detto che “Alcune sue disposizioni, ispirate a un intento nobile di difendere i lavoratori hanno determinato un’insufficiente creazione di posti di lavoro”. Tanto per cominciare: la frase, di per sé, pronunciata in una fase tanto delicata come questa sotto il profilo occupazionale (si pensi alle proteste degli operai dell’Alcoa) non rischia di essere fraintesa e generare ulteriori tensioni?

Monti ha detto questa cosa ora perché proprio in questi giorni sta partendo l’iniziativa referendaria di SEL e IdV per l’abrogazione della nuova disciplina dei licenziamenti contenuta nella legge Fornero e il ritorno al vecchio articolo 18: un’iniziativa verso la quale una parte del Pd non nasconde le proprie simpatie. Monti ci avverte che questo ritorno all’indietro non farebbe bene al nostro mercato del lavoro. Del resto, anche i lavoratori Alcoa lo sanno bene: non è certo l’articolo 18 che potrebbe dare loro una sicurezza di lavoro per il prossimo futuro, mentre una legislazione più moderna e allineata ai migliori standard europei può favorire l’afflusso degli investimenti stranieri.

Nel merito: le risulta che, effettivamente, lo Statuto dei lavoratori abbia “determinato un’insufficiente creazione di posti di lavoro”? Se è così, quali sono i fattori in esso contenuti che hanno contribuito negativamente al mercato del lavoro?
Il vecchio articolo 18 ha sicuramente una responsabilità di primo piano nel dualismo del nostro mercato del lavoro: cioè nello sviluppo di un ampio segmento della nostra forza-lavoro in posizione di sostanziale dipendenza, ma esclusa dal rapporto di lavoro subordinato regolare. Negli ultimi tempi, soltanto due assunzioni ogni dieci, nel nostro mercato del lavoro, sono avvenute per rapporti in cui si applicasse il vecchio articolo 18. E già questa è un’ottima ragione a sostegno della riscrittura di questa norma. Ma un altro gravissimo nostro problema è costituito dalla chiusura ermetica dell’Italia agli investimenti stranieri; e a determinare questo effetto hanno fortemente contribuito, insieme ai difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, anche il nostro sistema di relazioni industriali, la nostra legislazione del lavoro ipertrofica, illeggibile, non traducibile in inglese, gravemente disallineata rispetto al resto d’Europa.

Che peso hanno avuto i sindacati nel determinare queste scelte? E la politica?
Più che di “scelte” parlerei di inerzia, ritardo nell’adeguamento. In Germania il legislatore e le forze sociali hanno compiuto un importantissimo aggiustamento della struttura della contrattazione collettiva e della disciplina dei licenziamenti già all’inizio degli anni 2000; noi abbiamo tardato 10 anni. E questi ritardi si pagano.

Quali furono le ragioni di questo ritardo, di questa inerzia?
Poiché sono sempre portato a guardare ai difetti di casa mia, prima che a quelli altrui, rispondo che a questo ritardo ha contribuito molto un vero e proprio blocco mentale che ha colpito la sinistra italiana: quello che la ha indotta a sacralizzare le vecchie forme del sistema di protezione del lavoro, senza vederne i difetti e i costi. Ma anche il centrodestra non ha brillato per capacità di svecchiare questo sistema: col risultato che nel “ventennio berlusconiano” l’ordinamento è stato modificato solo al margine; e i costi sono aumentati a dismisura.

Quali costi?
Costi in termini di segregazione di una parte cospicua della forza-lavoro, che resta esclusa dal sistema stesso delle protezioni. Costi in termini di ingessatura delle strutture produttive medio-grandi: quando la sicurezza del lavoratore è interamente costruita sullo stretto suo legame con il posto di lavoro, è inevitabile che l’intero sistema tenda alla conservazione delle strutture esistenti, anche quando non sono più produttive. Questo riduce la produttività media del lavoro degli italiani, con il conseguente effetto depressivo sulle loro retribuzioni. Oltre a disincentivare, come dicevo prima, gli investimenti stranieri. A questo si riferisce Monti quando parla di effetto depressivo del nostro vecchio sistema di protezione.

Crede che lo Statuto andrebbe modificato? Come?
L’intera nostra legislazione del lavoro di fonte nazionale dovrebbe essere riscritta in modo semplice, sintetico, leggibile immediatamente da parte di tutti coloro che devono applicarla: decine di milioni di persone. Per questo, con altri 54 senatori Pd, ho presentato nel 2009 il disegno di legge n. 1873, che sostituisce 200 vecchie leggi, per un totale di duemila pagine, con sessanta articoli brevi, chiari e facilmente traducibili in inglese. Li abbiamo scritti avendo in mente il modello nord-europeo centrato sul principio della flexsecurity; ma la stessa tecnica legislativa potrebbe, ovviamente, essere posta al servizio di scelte di politica del lavoro diverse.

Nell’insieme, valuta che sarebbe sufficiente modificare lo Statuto per rilanciare l’occupazione? Cosa sarebbe necessario fare?
Sufficiente, no di certo. Il codice del lavoro semplificato può però essere utilissimo come nuovo biglietto da visita dell’Italia per gli operatori stranieri.

Quanto e come sta contribuendo alla creazione di nuovi posti la riforma del lavoro della Fornero?
La legge Fornero compie un primo passo importante nella direzione giusta, sia per quel che riguarda la disciplina dei licenziamenti, sia per quel che riguarda gli ammortizzatori sociali: trattamento di disoccupazione e Cassa integrazione guadagni. Che significa voltar pagina rispetto al nostro vecchio modo di affrontare le crisi occupazionali aziendali. Se sapremo dare ai nostri interlocutori europei affidamento sulla nostra volontà e capacità di mantenere queste scelte e proseguire su questa strada, gli interessi sul debito si abbasseranno, avremo decine di miliardi in più ogni anno da investire sullo sviluppo del nostro Paese, e anche gli investimenti stranieri torneranno ad affluire in Italia. Credo che sia anche questo il motivo per cui oggi anche alcuni dei più fieri oppositori della riscrittura dell’articolo 18 operata dalla legge Fornero sono convinti che il voto referendario confermerebbe la riforma.

A chi si riferisce?
Proprio oggi sull’Unità Luigi Mariucci scrive: “a me pare certo che ove si ponesse ai cittadini italiani la domanda secca ‘volete voi reintrodurre il vecchio articolo 18 dello Statuto?’, la maggioranza di essi direbbe no, o, molto probabilmente, non si recherebbe neppure a votare”. E il capo della Cisl, Raffaele Bonanni, ha detto pubblicamente: “bisogna costruire un patto perché le norme sul lavoro resistano ai cambi di governo”. Questo non significa, ovviamente, che la nuova legge sia esente da difetti, anche gravi.

Quali criticità sottolineerebbe in questa nuova legge? Lei cosa cambierebbe?
Questo testo legislativo è ancora scritto alla vecchia maniera: ipertrofico e leggibile soltanto per gli addetti ai lavori. È un difetto grave, che però può essere superato solo con una riscrittura dell’intero compendio della legislazione del lavoro. La nuova legge è anche difettosa sul fronte dei nuovi servizi nel mercato del lavoro: essa enuncia la necessità di un livello di efficienza nettamente superiore all’attuale, ma non delinea ancora con precisione il come raggiungerlo. Infine, sia per quel che riguarda la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro regolari, sia per quel che riguarda il contrasto al precariato, questa legge è ancora troppo timida: c’è ancora molto da fare, su questo terreno.

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