MARIUCCI: DOVE ICHINO, E CON LUI RENZI, SBAGLIANO

SECONDO IL GIUSLAVORISTA BOLOGNESE, IL SINDACO DI FIRENZE PECCA DI AVVENTATEZZA NEL FAR SUE LE MIE PROPOSTE DI PROFONDA RIFORMA DEL DIRITTO E DEL MERCATO DEL LAVORO

Intervento scritto per questo sito da Luigi Mariucci, responsabile regionale del Lavoro per l’Emilia Romagna (già professore di diritto del lavoro nell’Università Ca’ Foscari di Venezia), 17 novembre 2012 – Segue la mia replica .
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Mi ha colpito nel confronto tra i candidati alle primarie su Sky sentire Renzi che sui temi del lavoro se la cavava così: “semplifichiamo il diritto del lavoro in 59 articoli, come propone Ichino”. Ma sa Renzi davvero di cosa parla? Della proposta di Ichino ho già discusso con lui tempo fa nel suo sito. Riassumo qui il mio giudizio. Semplificare il diritto del lavoro è davvero un serio e ottimo programma. Da tempo vado anch’io sostenendo che la legislazione del lavoro è diventata ormai non solo pletorica, ma persino illeggibile. L’esempio più eclatante è quello della disciplina del mercato del lavoro. Nell’ultimo decennio in tema si sono succedute ben tre leggi, per così dire, organiche, oltre a una serie innumerevoli di micro-interventi. Si è cominciato con la legge n.30 del 2003 (cosiddetta, impropriamente, legge-Biagi), composta da circa 90 articoli e migliaia di commi, accompagnata  da una serie di decreti legislativi attuativi, seguita poi dalla legge-Damiano del 2007 per arrivare alla legge Monti-Fornero del 2012, anch’essa composta da centinaia di commi: ne risulta un ginepraio, spesso inestricabile. Basti pensare alle regole in successione disposte sui contratti di lavoro a termine: un vero rompicapo! Il paradosso è che questa alluvionale e ondivaga legislazione è stata disposta sempre dichiarando l’obiettivo della semplificazione.

L’altro paradosso sta nel fatto che mentre si continua a legiferare ad oltranza, con scarsi se non nulli riflessi sulla realtà effettuale dominata da una drammatica crisi recessiva e da galoppanti tassi di disoccupazione che richiederebbero ben altri interventi, continua invece a determinarsi un gigantesco vuoto normativo  su alcune questioni cruciali. Mi riferisco al tema della rappresentanza e della democrazia sindacale: siamo infatti l’unico paese in Europa in cui non si capisce quale sia l’effetto
giuridico di contratti collettivi cosiddetti separati e dove risulta ammissibile, per quanto risulti con evidenza illegittimo in ragione del principio costituzionale della libertà sindacale, escludere sindacati rappresentativi dai negoziati per il rinnovo dei contratti nazionali, come avviene per il settore metalmeccanico in cui Federmeccanica non ammette la Fiom-Cgil alle trattative, ovvero espellere dalla rappresentanza in azienda sindacati che, pur essendo rappresentativi, hanno dissentito dai contratti aziendali, come accade nel gruppo Fiat.

È giusto, anzi è necessario  quindi semplificare. Ma occorre anche semplificare bene. Da qui il mio dissenso nel merito con la
proposta di Ichino. Su almeno tre punti. Il primo riguarda la questione della disciplina dei licenziamenti. Ichino da tempo sostiene che la reintegrazione a seguito del licenziamento illegittimo è una anomalia italiana, e propone il ritorno alla legge del 1966, n. 604, ovvero alla monetizzazione del licenziamento, sostenendo che una più forte libertà dell’impresa in materia di
potere di licenziamento è utile allo sviluppo dell’occupazione e alla attrazione degli investimenti dall’estero. Di modo che Ichino ha assunto una posizione, sulla riforma Monti-Fornero, critica, per così dire, da destra. Il secondo punto riguarda la questione dei diritti costituzionali di fondo, a partire dal diritto di sciopero. Ichino sostiene non solo che le clausole antisciopero stipulate nei contratti (separati) della Fiat sono legittime, ma che i lavoratori italiani, sempre al fine di attrarre investimenti, avendo ormai poco da offrire dovrebbero appunto scambiare la rinuncia al diritto di sciopero a fronte di progetti di investimento e occupazione. Di conseguenza sul sistema contrattuale Ichino propone la medesima ricetta: una regolazione della rappresentanza e della contrattazione collettiva fondata su una sorta di “fai da te” a livello aziendale. In ogni azienda si dovrebbe eleggere una rappresentanza sindacale investita del potere di decidere se fare un contratto aziendale in proprio o rimettersi al contratto nazionale, il quale sarebbe quindi un contratto di ultima istanza, per così dire surrogatorio al ribasso.

Il mio dissenso dalle proposte di merito di Ichino, appena riassunte, è non solo radicale, ma profondo, fondato su elementi per me indefettibili di cultura politica e sociale. È evidente infatti che dietro i dissensi  qui descritti si svolge una contrapposizione
di fondo tra diverse visioniu dello sviluppo economico, sociale e civile. Io penso che tra diritti del lavoro e esigenze immediate del mercato debba determinarsi un confronto, per così dire, dialettico: vanno riconosciute le esigenze ragionevoli del mercato, ma resta la dimensione dei diritti. Se non fosse così saremmo ancora al tempo in cui i bambini venivano mandati a lavorare
nelle miniere, agli albori della prima rivoluzione industriale. Ichino invece ritiene che i diritti devono rendersi cedevoli al mercato. Ichino è un neo-liberista. Io sono un neo-keynesiano.

Non so  quanto di  tutto questo sia consapevole Renzi quando recita i suoi slogan. Non vorrei che si confondesse la semplificazione delle normative con la superficialità del pensiero, come è accaduto quando lo stessi Renzi ha pronunciato frasi memorabili del tipo: “dell’art.18 non me ne può fregare di meno” e “con Marchionne senza se e senza ma”. Salvo poi essersene pentito e avere cambiato opinione. Ma come si fa a prendere sul serio un pensiero così ondivago e variabile?

LA MIA REPLICA
Contrariamente a quel che pensa Luigi Mariucci, Matteo Renzi sa benissimo a che cosa si riferisce quando fa del Codice del lavoro semplificato uno dei capitoli più rilevanti del suo programma elettorale e di governo: nell’intervista all’Unità di alcuni giorni fa ho ricordato il seminario da lui promosso su questo progetto a Firenze nel 2010; uno dei primi di una serie di alcune centinaia che da allora si sono svolti in ogni parte d’Italia, tutti documentati nella sezione Incontri di questo sito. Ciò di cui Luigi Mariucci non riesce a capacitarsi è che un progetto di riforma tanto lontano dalle sue idee in materia di lavoro e relazioni industriali possa avere diritto di cittadinanza nel centrosinistra. Sbaglierò, ma questo suo intervento mi sembra una manifestazione tipica del modo di pensare di quella vecchia sinistra di cui ho parlato l’altro ieri alla Leopolda: quella che sul terreno della protezione del lavoro e  della costruzione delle pari opportunità ha da mezzo secolo un bilancio fallimentare, ma che ciononostante pretende di insegnare al mondo intero che cosa sia veramente “di sinistra” e che cosa no, che cosa sia “keynesiano” (come se Keynes fosse la quintessenza della sinistra) e che cosa “liberista”. Dunque, che cosa sia lecito a un candidato alla guida del centrosinistra proporre e che cosa no; e chi possa stare nel Pd e chi no.
Il guaio, per chi la pensa come L.M., è che non sono più tempi in cui la “linea” la decide solo l’apparato del partito: il bello delle primarie è che l’ultima parola è data agli elettori. Domenica 25 novembre vedremo se di eretici in casa nostra ci sono solo io o ce n’è qualcuno di più
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Quanto al merito delle due questioni principali sollevate da  L.M., mi limito a invitare i lettori (ed elettori di domenica prossima):
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a) a leggersi la disciplina dei licenziamenti contenuta negli articoli 33, 34 e 35 del Codice del lavoro che Renzi e io proponiamo, poi rileggersi quella contenuta nella legge n. 604/1966: a chiunque non consideri il vecchio articolo 18 dello Statuto del 1970 come l’unica possibile protezione seria contro il licenziamento è evidente che tra la nostra proposta e la legge del 1966 corre mezzo secolo di evoluzione della cultura giuslavoristica europea; oltre al piccolo dettaglio che la nuova disciplina da noi proposta si applica a tutto il lavoro dipendente e non soltanto a metà di esso, come l’articolo 18 nell’ultimo ventennio e come la stessa legge n. 604/1966 nella seconda metà degli anni ’60;
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b) a confrontare gli articoli 56 e 57 dello stesso nuovo Codice del lavoro con la disciplina della materia della contrattazione collettiva, e in particolare di quella aziendale, attualmente vigente in Germania: se qualcuno – L.M. compreso, ovviamente – è in grado di mostrare che in Germania il contratto aziendale ha poteri di deroga rispetto a quello nazionale più limitati di quelli che noi proponiamo, mi taglio i baffi in segno di penitenza. Se però nessuno è in grado di sostenerlo, sarà L.M. a dover rinunciare alla sua scomunica contro questo Codice, almeno per questo aspetto: perché la disciplina della materia in vigore in Germania da un decennio è farina del sacco dei socialdemocratici di quel Paese.
Ma forse per L.M. sono anche loro “di destra”.   (p.i.)

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