TRATTARE CON BRUXELLES PER NON FINIRE SOTTO TUTELA

SENZA UNA SVOLTA DI POLITICA ECONOMICA CAPACE DI INNESCARE LA CRESCITA, NON RIMARREMO SOTTO IL 3% DEL DEFICIT NEPPURE QUEST’ANNO – CHIUSA LA PROCEDURA DI INFRAZIONE, SI APRIRANNO NUOVI SPAZI SOLO SE PRESENTEREMO ALL’EUROPA UN PIANO CREDIBILE DI RIDUZIONI D’IMPOSTA E TAGLI ALLA SPESA (E LA COSA NON È IMPOSSIBILE)

Editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 24 giugno 2013

Il mondo cambia ma la politica economica in Italia è ferma. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha annunciato la fine del «quantitative easing», la straordinaria immissione di liquidità sui mercati che durava da oltre quattro anni. Non c’è di che sorprendersi. L’economia americana ha ripreso a crescere e la disoccupazione è scesa al 7,2%. Molti anzi pensano che Ben Bernanke avrebbe dovuto cambiare rotta anche prima. Gli effetti già si vedono: i rendimenti dei titoli decennali emessi dal Tesoro americano sono saliti di un punto in poche settimane, dall’1,6 al 2,6%. I titoli decennali tedeschi li hanno seguiti, con rendimenti anch’essi in salita. Per noi sono cattive notizie: con un debito al 130% del Prodotto interno lordo il deficit pubblico è particolarmente sensibile a variazioni nei tassi di interesse.
Il Consiglio europeo di giovedì chiuderà la «procedura di infrazione per deficit eccessivo» aperta contro l’Italia nel 2009. Il rientro fra i Paesi virtuosi avverrà a fronte del nostro impegno a mantenere d’ora in avanti il deficit al di sotto del 3%. È inutile che Berlusconi continui a chiedere di sfondare unilateralmente questo vincolo: i mercati reagirebbero con preoccupazione e il costo del debito pubblico salirebbe, peggiorando la situazione, invece di migliorarla. È anche inutile che il Pdl continui a chiedere di cancellare l’Imu e di non far salire l’Iva, senza dire quali spese dovrebbero essere tagliate per compensare il minor gettito fiscale. I sindacati, dal canto loro, possono manifestare per il lavoro quanto vogliono: l’occupazione non si crea per decreto ma combinando riforme radicali del mercato del lavoro con politiche economiche che tengano conto dei vincoli di bilancio.
E infine il governo. Nonostante la buona volontà di alcuni ministri, a cominciare da Fabrizio Saccomanni, l’esecutivo tergiversa. Senza una svolta radicale della politica economica capace di innescare un po’ di crescita, il 3% non lo rispetteremo neppure quest’anno. Ci stiamo infilando in una strada che ci porta dritto al fondo salva Stati (European stability mechanism, Esm) e a chiedere alla Bce di attivare l’Outright monetary trasnactions (Omt), cioè acquistare i nostri titoli pubblici. Torneremmo ad essere sottoposti alla vigilanza di Bruxelles, e questa volta anche del Fondo monetario internazionale, che ci obbligherebbero a fare le stesse riforme che da anni sappiamo di dover fare. Può darsi che questa sia l’unica soluzione, ma un tentativo per evitarlo si può e si deve ancora fare.
Inutile illudersi che chiusa la procedura di infrazione si aprano più spazi. Si apriranno solo se l’economia ricomincerà a crescere. Per farlo dovremmo presentare a Bruxelles un piano credibile di riduzioni di imposte e tagli alla spesa. Diciamo 50 miliardi di minori tasse sul lavoro da varare immediatamente, e altrettanti di minori spese spalmate su un triennio e approvate dal Parlamento con procedura d’urgenza prima di sottoporle a Bruxelles. All’Europa dovremmo chiedere di concederci di superare per due anni la soglia del 3% in cambio di un piano credibile di tagli di spese, come peraltro già concesso a Francia e Spagna. Poi nessun aumento dell’Iva. È un piano molto diverso dallo sfondamento unilaterale senza un programma di rientro. Altrimenti in autunno sfonderemo comunque il vincolo del 3% e lo spread risalirà. A quel punto l’unica strada sarà la solita: altri aumenti di imposte per far cassa velocemente, come fu costretto a fare Mario Monti due anni fa.

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