CONTRO IL CODICE SEMPLIFICATO DEL LAVORO LA COALIZIONE BI-PARTISAN DELLA COMPLICAZIONE

IN OPPOSIZIONE AL PROGETTO SI STRINGE IMPLACABILE LA TENAGLIA DEI NON EXPEDIT DI DESTRA E DI SINISTRA – LA CASTA DEI “SACERDOTI DEI SACRI MISTERI” RIPROPONE I PROPRI VECCHI VETI, SENZA NEANCHE CURARSI DI AGGIORNARLI IN RELAZIONE AI NUOVI CONTENUTI DEL PROGETTO

Commento a un articolo del quotidiano Il Messaggero del 31 ottobre 2013, che fa seguito a un’intervista a Matteo Renzi, uscita sullo stesso giornale il giorno prima – Per il dibattito precedente sul codice semplificato del lavoro v. il Portale della semplificazione e della flexsecurity .

Nell’intervista di mercoledì al Messaggero Matteo Renzi rilancia il progetto del Codice semplificato del lavoro, già da lui proposto l’anno scorso e ora fatto proprio dal Governo con il documento Destinazione Italia. Dice: «Vanno cambiate, semplificate, azzerate le norme che regolano il mondo del lavoro e il sistema previdenziale. […] Non cancellerei lo Statuto dei lavoratori. […] Immagino un codice del lavoro che abbia 60-70 regole che comprendano anche i paletti stabiliti nel ’70, per quanto riguarda tutele e diritti. […] Esiste una serie tremenda di blocchi burocratici che impediscono agli imprenditori di assumere. Va semplificata e resa più chiara la possibilità di offrire lavoro».

Su questo progetto il giorno dopo, dalle colonne dello stesso quotidiano, si stringe la tenaglia dei non expedit di destra e di sinistra. Sentiamo Michele Tiraboschi, giuslavorista di fiducia di Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro del Governo Berlusconi: «Purtroppo il progetto di Renzi è impraticabile. Per due ordini di motivi. Uno è politico: ha sempre avuto l’opposizione della Cgil e non credo che il PD possa attuarlo con il dissenso del sindacato». In realtà Renzi nella stessa intervista del giorno prima aveva risposto a questa obiezione: «Ho profondo rispetto […] per due soggetti, il partito e il sindacato, che sono protagonisti differenti. Il Pd non deve essere la cinghia di trasmissione della Cgil»; ed è proprio su questo statement of policy molto esplicito, che il sindaco di Firenze chiede l’investitura a segretario del Pd. Ma evidentemente Tiraboschi ritiene che se non c’è riuscito in tre anni di governo il ministro Sacconi, non può riuscirci nessun altro. E prosegue: «Secondo: moltissime leggi del lavoro sono di attuazione di normative europee, vincolanti e inderogabili. Azzerarle è impossibile». Infatti il progetto parla di riduzione a un testo unico di 70 articoli di tutta la legislazione del lavoro di fonte nazionale. Nessuna direttiva europea impone all’Italia di avere 36 leggi, tutte attualmente in vigore, in materia di Cassa integrazione guadagni, una disciplina dell’apprendistato tale per cui non si riesce ad assumere un apprendista senza la consulenza di un collegio di esperti, venti pagine di norme in materia di lavoro a tempo parziale, e così via.

Dall’ala destra passiamo alla sinistra. Cesare Damiano: «Immaginare di ridurre tutto a 60-70 regole in un complesso così stratificato di norme è un po’ come tornare all’idea di contratto unico a tempo indeterminato di Ichino, una proposta che però consentiva all’imprenditore di licenziare senza vincoli». Se l’ex-ministro del Lavoro del Governo Prodi si fosse curato di dare un’occhiata al  disegno di legge n. 1873/2009 nella passata legislatura, e ora alla nuova edizione del progetto di Codice semplificato del lavoro contenuta nel  disegno di legge n. 1006/2013, avrebbe potuto constatare agevolmente che la semplificazione è perfettamente compatibile con il mantenimento dell’articolazione attuale dei contratti di lavoro: a tempo indeterminato e a termine, a tempo pieno e parziale, staff leasing e lavoro temporaneo tramite agenzia, apprendistato, lavoro a domicili0, a chiamata, domestico e accessorio. E avrebbe potuto constatare che la disciplina della stabilità del lavoratore ivi proposta non consiste affatto nella pura e semplice “libertà di licenziare senza vincoli”.

Proseguiamo, sempre sull’ala sinistra, con Aris Accornero: «Non è così che si procede. Altrimenti si alimenta la precarietà o quel che è peggio la sensazione di precarietà, un umore collettivo che non aiuta a venire fuori dai problemi. Buttare giù tutto non si può fare». Come se i lavoratori italiani oggi si sentissero, invece, protetti dalla giungla delle norme che ingabbiano il tessuto produttivo. Ecco: nella teorizzazione di questa equazione semplificazione=precarietà si annida la causa della complicazione; in queste parole si manifesta la paura di tanta parte della sinistra italiana attuale nei confronti di un diritto del lavoro che possa essere immediatamente letto, capito e applicato senza fatica da milioni di persone senza la necessaria intermediazione di consulenti, sindacalisti, funzionari, avvocati e giudici (auguri, Matteo!). Eppure Damiano e Accornero sono abbastanza avanti con gli anni per ricordare che nel ’70 lo Statuto dei Lavoratori riformò l’intero diritto del lavoro dell’epoca in soli 41 articoli, i quali furono distribuiti in milioni di copie in ogni angolo del Paese e in tre mesi vennero letti e immediatamente capiti da milioni di lavoratori e imprenditori, modificando profondamente – nel bene e nel male – la nostra cultura del lavoro. Perché mai oggi non si dovrebbe poter fare altrettanto, e magari anche meglio, in 60 o 70 articoli? A Michele Tiraboschi, Cesare Damiano, Aris Accornero e molti altri non piace il contenuto del Codice semplificato del lavoro secondo la mia proposta? Che ne propongano, nello stesso formato, contenuti diversi. Ma non si nascondano dietro pretese impossibilità tecniche: quel progetto è lì proprio per dimostrare che la cosa è tecnicamente fattibilissima. A meno che essi non difendano, in realtà, la complessità della legislazione del lavoro in quanto presupposto del potere della casta dei “sacerdoti dei sacri misteri”, cui appartengono i sindacalisti al pari dei funzionari delle associazioni imprenditoriali, il ceto dei giuslavoristi al pari di quello dei consulenti del lavoro. Ma allora questo sarebbe tutt’un altro discorso. Varrebbe davvero la pena, finalmente, di esplicitarlo. Ne risulterebbe che la protezione dei diritti dei lavoratori c’entra assai poco. .

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