POLITICA INDUSTRIALE: LE DUE LEVE SBAGLIATE E LE CINQUE GIUSTE

I DUE INTERVENTI SBAGLIATI: FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE FUORI MERCATO E DIFESA DELLA LORO “ITALIANITÀ” – I CINQUE GIUSTI: RIDURRE PRESSIONE FISCALE, BUROCRAZIA E DURATA DEL PROCESSI, FAR FUNZIONARE MEGLIO IL MERCATO DEL LAVORO, ALLINEARNE LA DISCIPLINA AI MIGLIORI STANDARD INTERNAZIONALI

Intervento pubblicato su il Foglio, 3 marzo 2015 

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Quando i sindacati parlano di “politica industriale”, in genere per lamentarne l’assenza, si riferiscono esclusivamente allo Stato che si fa imprenditore correndo in soccorso delle imprese in crisi per tentare di rimetterle in linea di galleggiamento. Questa è la politica industriale che – se si escludono eccezioni molto circoscritte e ben motivate, come è il caso dell’Ilva – è meglio continui a restare assente.

Qualche volta collegata a quella invocata dai sindacati nelle situazioni di crisi, qualche volta no, è invece la “politica industriale” consistente nella difesa dell’italianità delle nostra imprese di grandi dimensioni, nella quale si sono esercitati nell’ultimo quarto di secolo sia i Governi di centrodestra, sia quelli di centrosinistra: da Alitalia ad Autostrade, da Banco Antonveneto a Parmalat, da Telecom alle Poste. Anche questa è meglio perderla che trovarla.

Quella che invece serve, eccome, è l’azione volta a riaprire agli investimenti diretti esteri (senza la pretesa di selezionarli) un Paese come il nostro, che è da molti anni drammaticamente chiuso al loro flusso in entrata, anche per una ostilità pregiudiziale contro le multinazionali, diffusa tanto a sinistra quanto a destra. Se solo riuscissimo ad allineare l’Italia alla media UE per capacità di attrarre investimenti stranieri, cioè a portarla da un flusso annuo inferiore all’uno per cento del PIL a un flusso pari al 4,5 per cento, questo significherebbe l’ingresso in Italia di 50 o 60 miliardi di euro ogni anno, accompagnati da piani industriali capaci di valorizzare il lavoro degli italiani mediamente meglio di come sono valorizzati nelle aziende a capitale e management indigeni. Per riaprire il Paese a questi investimenti occorre agire principalmente su cinque leve: riduzione della pressione fiscale su imprese e lavoro, riduzione dei pesi burocratici che ostacolano i nuovi insediamenti, velocizzazione della giustizia civile, efficientamento del mercato del lavoro e allineamento del diritto del lavoro ai migliori standard dei Paesi industrializzati. In genere, quando si parla di queste ultime due leve i sindacalisti sollevano l’obiezione “benaltrista”, riferendosi alle prime tre. Ma occorre agire su tutte e cinque. Ed è – mi sembra – quanto sta facendo il Governo Renzi.

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