CHI VUOLE DAVVERO IL DECENTRAMENTO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E CHI NO?

CHE COSA ACCADE SE L’ACCORDO NON SI FA E COME SI PUO’ EVITARE IN EXTREMIS QUESTO ESITO

Articolo pubblicato nel numero di settembre della rivista Arel – Europa Lavoro Economia

        Una parte della Cgil è convinta che sia sbagliato proprio l’obiettivo di fondo della trattativa aperta nel maggio scorso dai sindacati confederali con la Confindustria: cioè l’aumento del ruolo della contrattazione aziendale, della porzione di retribuzione negoziata al livello dell’impresa, con corrispondente riduzione della porzione negoziata al livello centrale. Così stando le cose, qualsiasi accordo venga raggiunto con questo negoziato, esso sembra destinato a essere considerato da quella corrente sindacale come una sconfitta. Per evitare la spaccatura tra le due anime della Cgil, la sua segreteria è andata alla trattativa indicando questo obiettivo: occorre aumentare il ruolo della contrattazione aziendale, senza però ridurre il ruolo del contratto collettivo nazionale, che anzi va difeso. Ma come si fa a dare più spazio alla contrattazione aziendale se non a spese di quella nazionale?

Questo essendo il dramma che si vive nell’ala sinistra del movimento sindacale, si potrebbe pensare che Confindustria si presenti alla trattativa sottolineando l’opzione per un deciso decentramento del sistema della contrattazione collettiva. Invece, apparentemente, no: a metà settembre Confindustria ha presentato alle controparti una proposta di accordo nella quale la struttura centralizzata del sistema è sottolineata in modo addirittura arcigno (“sovietico”, lo qualifica il segretario della Cgil Epifani). Il documento delinea, sì, un contratto collettivo nazionale più “leggero”, il cui compito è limitato a garantire un “salario minimo” o poco più, per fare spazio al premio di produzione negoziato al livello di impresa; ma, invece che allentare le redini sul collo della contrattazione aziendale, esso le tira quasi più di prima. Ed esplicita il divieto di discostarsi, al livello aziendale, dal modello di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione fissato dal contratto nazionale, limitando le possibili deroghe a casi eccezionali. Nel documento di Confindustria ‑ a saperlo leggere in controluce – non si esprime tanto l’opzione per uno spostamento del baricentro della contrattazione verso l’impresa, quanto semmai l’interesse di alcune imprese medie e grandi del nord a poter usare il contratto nazionale come scudo contro le “piattaforme rivendicative” ritenute eccessive: quelle che al livello aziendale vengono presentate proprio dalle componenti più aggressive del movimento sindacale. Poco importa che in molti casi questo scudo impedisca anche l’innovazione organizzativa, in particolare quella di cui sono sovente portatori gli investitori stranieri.

Confindustria e sinistra sindacale, dunque, difendono entrambe la centralità e l’inderoga­bilità del contratto collettivo nazionale. La prima, però, lo fa attribuendogli la funzione di argine alla contrattazione aziendale; la seconda lo fa attribuendogli soltanto la funzione di “zoccolo”, al di sopra del quale la contrattazione aziendale dovrebbe potersi sviluppare del tutto liberamente. Quanto a Cisl e Uil, esse sostanzialmente accettano l’impostazione proposta nel documento di Confindustria, pur con qualche rilevante divergenza su singoli punti. Sta di fatto che un accordo di questo genere cui rimanesse estranea la confederazione maggiore avrebbe ben poco senso sul piano pratico.

Queste essendo le posizioni di Cgil e Confindustria, non stupisce che il negoziato ristagni, nonostante che, apparentemente, tutti i protagonisti della trattativa appaiano legati a un modello marcatamente centralistico del sistema di relazioni industriali. La cosa curiosa è che, se l’accordo non si raggiunge, la prospettiva è quella di un brusco e drammatico passaggio di fatto al modello opposto. Negli ultimi anni molti dei contratti collettivi nazionali sono stati rinnovati con difficoltà sempre maggiori e in grave ritardo, alcuni non si rinnovano da molti anni; ora potrebbero moltiplicarsi le categorie – a cominciare dalla più grande, quella metalmeccanica ‑ nelle quali il contratto nazionale non si rinnova affatto, con la conseguenza che gli aumenti contrattuali verrebbero interamente decisi al livello aziendale: qualche avvisaglia in questo senso si è già manifestata di recente. E probabilmente l’attuale Governo sarebbe pronto ad assecondare questa evoluzione del sistema varando autoritativamente per legge un meccanismo di determinazione amministrativa del “salario minimo”, implicitamente sostitutivo del contratto collettivo nazionale.

A questo punto la Cgil deve decidere: se assecondare a sua volta questa evoluzione puntando al “non accordo”, oppure unirsi seriamente a Cisl e Uil (e ‑ perché no? – anche all’Ugl) nella ricerca di un accordo che concilii il ruolo del contratto nazionale, di difesa delle buste-paga anche là dove la contrattazione aziendale non arriva, con l’allargamento degli spazi per quest’ultima. Una soluzione potrebbe essere elaborata sulla base dell’idea proposta dagli economisti de lavoce.info Tito Boeri e Pietro Garibaldi: prevedere nell’accordo interconfederale un “premio di produttività” di facile applicazione universale (per esempio, il monte-premio aziendale potrebbe essere determinato in percentuale sul margine operativo lordo risultante dal bilancio, o sull’imponibile Irap; oppure sul relativo incremento nell’ultimo anno, sotto condizione che un aumento ci sia stato); consentire che la struttura di questo premio sia adattata dai contratti nazionali alle esigenze particolari di ciascuna categoria; e soprattutto stabilire che il premio stesso si applichi soltanto se non ne sia contrattato uno diverso al livello aziendale. In altre parole: il contratto nazionale incomincia a collegare la retribuzione all’andamento aziendale, ma “si ritira” là dove il contratto aziendale viene stipulato davvero.

Si tratta, in sostanza, di cercare la quadratura del cerchio puntando sul principio di sussidiarietà. Libere le parti ‑ magari opportunamente incentivate da una detassazione disposta dalla legge proprio a questo scopo ‑ di negoziare l’entità media del premio e il meccanismo del suo collegamento a uno o più indici di andamento dell’azienda; ma là dove la contrattazione aziendale non si attiva, si applica la disciplina “di default” di questa voce retributiva contenuta nel contratto di categoria; e, in difetto anche di questa disciplina collettiva, si applica quella di ultima istanza, disposta dall’accordo interconfederale.

Altre soluzioni si possono inventare; ma solo a una condizione: che alla base ci sia la volontà di mantenere in vita, con un indispensabile intervento di manutenzione straordinaria, l’attuale sistema di relazioni sindacali. Ci sono anche buone ragioni per preferire il suo drastico superamento; ma, se la scelta è questa, sia essa di parte sindacale o di parte imprenditoriale, è bene che essa venga esplicitata e che chi la compie abbia ben presenti le sue conseguenze.

 

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