“lL FOGLIO” MI ASSEGNA IL PREMIO “MARTELLO RIFORMISTA DELLA LEGISLATURA”

“Non ne lascia passare una – seppure con sguardo sereno – il professore e senatore Pd Pietro Ichino, uno che potrebbe correre per la corona di ‘parlamentare della legislatura’ per attivismo nel Palazzo, ma pure per attivismo convegnistico, internettiano e scrittorio”

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Articolo di Marianna Rizzini pubblicato su
il Foglio del 28 novembre 2017 – In precedenza il quotidiano il Riformista diretto da Antonio Polito mi aveva insignito dell’Oscar del Riformista per il miglior parlamentare 2008-2009     .
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Foglio RizziniRoma. “Benvenuti nel sito di Pietro Ichino”, si legge giungendo via web sull’home page di www.pietroichino.it, e non è tanto la frase in sé a fare il caso quanto il tono di ottimistica accoglienza che pervade la schermata, altrimenti improntata al non mandarle a dire. Non mandarle a dire a questi come a quelli: ai nemici a vario titolo del Jobs Act, ma anche a Matteo Renzi, e anche al centrodestra dialogante, e in generale a chi ripeta parole d’ordine con qualche automatismo demagogico. Non ne lascia infatti passare una – seppure con sguardo sereno – il professore e senatore Pd Pietro Ichino, uno che potrebbe correre per la corona di “parlamentare della legislatura” per attivismo nel Palazzo, ma pure per attivismo convegnistico, internettiano e scrittorio, e a volte televisivo. E però, al tempo stesso, quando Ichino parla non basta il sottopancia o la targa da tavolo “senatore Pd, giuslavorista”. Il professore, infatti, che lo scorso weekend è intervenuto alla cosiddetta “contro-Leopolda” di centrodestra chiamata “#IdeeItalia-La voce del paese”, ha conosciuto dall’interno il sindacato in tempi da Mimì Metallurgico, e poi il Pci non ancora “ex”, nei cui ranghi fu eletto in Parlamento nel lontano 1979. E si capisce che oggi è tutta un’altra storia, per lui che del Pd è stato padre cofondatore, dalla posizione appunto di esperto di Diritto del lavoro che già nel 2008 puntava sul tema “flessibilità”, ma che poi dal Pd è stato anche momentaneo transfuga: alle elezioni 2013 Ichino il riformista, che in quel momento si sentiva più riformista della creatura uscita dal Lingotto e ancora in bilico tra conservazione e rottamazione, correva infatti con Mario Monti. Anche se il futuro senatore, per il nascente Pd, aveva rappresentato la rottura con la Cgil di fase cofferatiana e il punto di svolta rispetto ad alcune sclerotizzazioni ideologiche. Era stato alla Leopolda del 2012 e aveva spiegato, più in senso post ideologico gaberiano (Giorgio Gaber) che in senso vetero-comunista, che cosa significasse “essere di sinistra” nel nuovo millennio: “Se per sinistra si intende uguaglianza, lotta alle disuguaglianze, il bilancio della sinistra italiana è fortemente deficitario…”, diceva, andando controcorrente rispetto alla gauche legata alla stretta contrapposizione con una destra vista come “destra degli orrori” e affezionata a una concezione di mercato del lavoro “duale” e a un sistema in cui l’anno di nascita poteva determinare il punto di arrivo nella scala sociale.

Poi però Ichino aveva preso un’altra strada, specie dopo la vittoria alle primarie di Pier Luigi Bersani. E a quel punto era stato cataclisma di odiatori sui social network, con hashtag #scusatipietro dedicato al giuslavorista, e con gli indignados intenti a chiedere non sempre educatamente a Ichino di chiedere perdono al Pd per il passaggio alla formazione montiana e addirittura per avere partecipato, quando ancora era membro del Pd, alla redazione di gran parte dell'”Agenda Monti”. E anche chi non partecipava alla condanna sommaria del tribunale della Rete, come Matteo Orfini, allora responsabile Cultura del Pd, scriveva una frase non priva di venature critiche: “Senza polemiche, ma penso che elettori e volontari delle primarie meritino una spiegazione”. Tempo un anno e mezzo, il panorama cambiava: altre primarie, altro segretario Pd, altro premier, esperienza Monti conclusa, come ebbe a dire lo stesso Ichino, che nel frattempo continuava la battaglia riformista per iscritto (con lunghi dibattiti sul suo sito con l’amico e collega Franco Debenedetti, che aveva cercato invano di convincerlo a non candidarsi e a procedere lungo la strada professorale del dibattito esterno).

Il riformista incompreso

Ma una volta tornato nel Pd, Ichino (che nel 2014, alla vigilia della formazione del governo Renzi, era stato messo nella rosa dei possibili ministri), si è trovato più volte (di nuovo?) dalla parte del riformista incompreso, in particolare sul Jobs Act, che il senatore difende in modo non sloganistico: “Un milione di posti di lavoro?”, ha detto alla convention milanese #IdeeItalia. “Non lo sappiamo, non abbiamo la controprova di quanti se ne sarebbero creati senza Jobs Act”, ma c’è la convinzione che il governo abbia “fortemente ridotto la pressione fiscale sulle imprese e il lavoro: già molto è stato fatto”. “Che cosa è imputabile al Jobs Act e che cosa no”, scrive sul suo sito: “Non c’è stato un aumento dei licenziamenti. L’aumento dell’occupazione è un effetto soltanto indiretto, dovuto alla crescita. Alle riforme del 2012 e del 2015 è invece imputabile il drastico calo del contenzioso giudiziale in materia di cessazione dei rapporti di lavoro”. Ma in un’intervista a questo giornale, venerdì scorso, ha fatto suonare la cosiddetta sveglia per il segretario del Pd ed ex premier: “Renzi è arrivato a un bivio. Può candidare il Pd a raccogliere il voto del 40 per cento di italiani che mostrano di apprezzare quel che ha fatto il suo governo e quel che sta facendo il governo Gentiloni, e – perché no? – anche di raccogliere il voto del 40 per cento di italiani che hanno votato per la riforma costituzionale; e allora deve impostare la campagna elettorale in rigorosa coerenza con quanto si è fatto fin qui… Oppure può scegliere di rincorrere un po’ i Cinque stelle, un po’ Berlusconi”. E nel febbraio scorso sempre lui, il senatore Ichino, dalle pagine del Sole 24 Ore, non nascondeva il suo non allineamento: il governo avrebbe dovuto avere più coraggio sull’Articolo 18, estendendolo anche al settore pubblico; anche se, per realpolitik, alla fine si poteva pur sempre dire “meglio di niente”.

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