CHE COSA ASPETTANO I GIOVANI A PROTESTARE CONTRO QUESTO FURTO DEL LORO FUTURO?

Mentre nonni e padri decidono di continuare a spendere trenta miliardi l’anno più di quello che il Paese produce, caricandoli sulle spalle di figli e nipoti, questi sembrano svagati, convinti che la politica non li riguardi

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Intervista a cura di Francesco Oggiano, per
Vanity Fair.it, 3 ottobre 2018 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico di due giorni prima, Deficit al 2,4%: i giovani non hanno nulla da dire?
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Professor Ichino, mi ha colpito il suo “invito” ai giovani a protestare contro questo governo. Per cosa dovrebbero ribellarsi in particolare?
Innanzitutto per i 2.300 miliardi di debito che i loro nonni e i loro padri hanno già caricato sulle loro spalle negli anni passati. Un debito enorme, contratto non per dotare il Paese di scuole e università migliori, o di una amministrazione pubblica più moderna, ma per mandare in pensione i cinquantenni e i sessantenni prima del tempo, o per tenere i lavoratori delle imprese fallite in Cassa integrazione a tempo indeterminato. Negli ultimi sei anni avevamo almeno imboccato il sentiero stretto della riduzione progressiva del deficit di bilancio; ora il Governo annuncia il ritorno alla finanza allegra precedente.

Cosa dovrebbero fare secondo lei, uno sciopero generale?
Uno “sciopero dei giovani” non avrebbe alcun senso. Ma ci sono molte altre forme possibili di mobilitazione. Basterebbe anche soltanto che qualche assemblea di liceali o universitari, qualche associazione, qualche manifestazione pubblica, qualche “occupazione simbolica” (purché davvero simbolica), si proponessero di porre il problema, di avvertire tutti quanti: “Guardate che questi duemila miliardi dovremo ripagarli noi!”. Invece nelle scuole e all’università si parla di tutt’altro. Nella mia facoltà vedo affissi manifesti di protesta e convocate riunioni sulle questioni più disparate, dal numero chiuso in qualche facoltà allo sgombero di qualche casa occupata, alla “solidarietà con i compagni” beccati dai vigili urbani in piena notte a imbrattare i muri; ma questo tema cruciale è totalmente assente.

Perché non se ne interessano? Magari perché pensano che quei soldi del “reddito di cittadinanza” possono fargli comodo?
Non credo che il motivo sia questo. Il problema è che la politica ha perso ogni fascino per questa nuova generazione. Alle contrapposizioni ideali del secolo scorso non se ne sono sostituite delle nuove. O meglio: oggi il grande spartiacque della politica dovrebbe essere quello che contrappone i “sovranisti” ai fautori dell’integrazione europea; ma questo tema sembra appassionare pochissimo i ventenni e in trentenni.

E lei pensa che invece una contrapposizione figli/padri o nipoti/nonni possa appassionarli?
Più modestamente, penso che questo furto sistematico ai loro danni da parte delle generazioni precedenti dovrebbe smuoverli, indurli a denunciare l’iniquità grave di una politica economica irresponsabile, che considera l’indebitamento come una sorta di “variabile indipendente” del sistema.

Forse, invece, sono affascinati dall’idea del “Reddito di cittadinanza”.
Già. Ma occorrerebbe che guardassero meglio che cosa c’è sotto questa etichetta. Che nasconde un inganno.

In che senso?
Il “Reddito di cittadinanza” teorizzato da alcuni pensatori come Philip Van Parijs o James Meade è un reddito assicurato a tutti senza condizioni, per il solo fatto di essere cittadini. Esiste soltanto in Alaska, dove lo Stato ha bisogno di incentivare le persone a fissare la propria residenza nonostante quattro mesi all’anno di buio e di temperature a 20 sotto zero, e ha da distribuire le royalties dell’estrazione del petrolio. Quello che propone il M5S, invece, non è altro che un “reddito di inserimento”, come il REI che già abbiamo, un po’ ampliato nella platea e aumentato nell’entità; ma pur sempre condizionato allo stato di povertà e, almeno in linea teorica, alla disponibilità personale al lavoro.

La convincono i mezzi con cui verrà dato il sussidio, attraverso la tessera sanitaria, ecc.?
Quella non mi sembra una cattiva idea. È un modo efficace, tra l’altro, per determinare una circolazione immediata del denaro erogato.

Di Maio sostiene che la misura, oltre ad abolire la povertà, aiuterà molti giovani a trovare lavoro. Qual è il rapporto di causa effetto tra reddito di cittadinanza e nuovi posti di lavoro?
Questo andrebbe chiesto allo stesso ministro del Lavoro.

Cosa si può fare allora per sostenere i disoccupati e creare nuovi posti di lavoro?
Sono gli investimenti, non l’aumento della spesa pubblica corrente, che fanno aumentare l’occupazione. E oggi la sola leva di cui disponiamo per incrementare notevolmente gli investimenti nel nostro Paese consiste nel renderlo più attrattivo per gli investitori, italiani e soprattutto stranieri. Ma per questo occorre una politica economica e del lavoro esattamente opposta rispetto a quella del Governo Di Maio-Salvini.

Lei ha detto: “Una legge finanziaria che porti il deficit al 2,4 per cento non rientra nelle cose concretamente fattibili”. Eppure sembra che stia per succedere. O no? Con quali conseguenze secondo lei?
La prima conseguenza, determinata dal solo annuncio, è un aumento dell’interesse chiesto dai creditori per prestarci il denaro: il famoso spread, che è già arrivato a 300 punti e che da solo è capace di bruciare miliardi, prima ai privati cittadini e alle imprese col rincaro dei mutui bancari, poi allo Stato stesso. Il passo successivo, a novembre, sarà lo scontro frontale con la Commissione Europea; e a dicembre l’abbassamento del rating del debito pubblico italiano, che obbligherebbe la BCE a sbarazzarsi dei nostri Buoni del Tesoro. A quel punto lo spread salirebbe oltre i 500 o i 600 punti e saremmo al default dello Stato. È a questo che vogliamo arrivare?

I 5 Stelle ripetono che il deficit dei precedenti governi, compresi quelli del Pd, è sempre stato tra il 2 e il 3%. Cosa cambia questa volta?
Da sette anni il deficit sta essendo gradualmente ridotto, secondo un percorso sempre concordato con la Commissione Europea, la cui contropartita è stata – non dimentichiamolo – la possibilità per la BCE guidata da Mario Draghi di praticare una politica monetaria estremamente favorevole al nostro Paese. Si collocava lungo questo percorso l’impegno, assunto dall’Italia con il DEF dello scorso anno, di ridurre il deficit per il 2019 allo 0,8 per cento. Ora la Commissione era anche disponibile a consentirci di arrivare all’1,6. Ma l’annuncio del Governo costituisce una plateale violazione dell’impegno assunto e una vera e propria provocazione nei confronti della Commissione. È la rottura di un rapporto di fiducia che dal 2012 eravamo riusciti a ricucire con i nostri partner.

Secondo lei che cosa muove il Governo a questa scelta?
Questo comportamento può rispondere a una sola logica: quella che porta all’uscita dell’Italia dal sistema dell’euro, quindi dall’UE. Sul piano economico, una catastrofe di proporzioni tali, che è persino difficile definirle. Anche i greci, otto anni fa, sono arrivati a un passo da questa catastrofe; ma appena hanno messo il naso oltre l’orlo del burrone e hanno visto da vicino che cosa li attendeva, se ne sono ritratti inorriditi. Vorrei che, da noi, di questo incominciasse a discutere la nuova generazione: perché è la generazione che rischia di soffrire di più a causa delle scelte irresponsabili delle precedenti.

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