IL DIALOGO CON LA UIL SUL PROGETTO FLEXSECURITY PROSEGUE

NEL SETTORE BANCARIO E ASSICURATIVO, CON IL “FONDO DI SOLIDARIETA’”, E’ GIA’ STATA ATTIVATA NEGLI ULTIMI ANNI UNA FORMA, SIA PURE ASSAI POCO EVOLUTA, DI CONIUGAZIONE TRA FLESSIBILITA’ DELLE STRUTTURE PRODUTTIVE E SICUREZZA DEI LAVORATORI. ORA IL SINDACATO STUDIA LA POSSIBILITA’ DI UN IMPORTANTE PASSO AVANTI SU QUESTA STRADA

Intervista a cura di Fulvio Furlan, pubblicata su UN Magazine, organo della UilCA-Uil, n. 8, 2 novembre 2009

La recente scomparsa di Gino Giugni ha riportato al centro del dibattito sociale lo Statuto dei Lavoratori e la sua attualità. Lei in un articolo sul Corriere della Sera dello scorso 6 ottobre ha scritto che lo stesso Giugni aveva colto i segni di declino della legge 300. In quali parti la sua analisi coincideva con il progetto di Flexsecurity che lei ha proposto?
Già negli anni ’80 Gino Giugni aveva sottolineato l’opportunità di una modifica incisiva della disciplina dei licenziamenti contenuta nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; poi aveva ribadito la stessa cosa nella lunga intervista che gli feci nel 1992, ora ripubblicata nel libro che ho curato per Giuffrè l’anno scorso: Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Il progetto per la transizione a un regime di Flexsecurity, contenuto nel disegno di legge 25 marzo 2009 n. 1481, è soltanto uno dei modi in cui quell’indicazione di Giugni può essere raccolta e sviluppata positivamente.
Tra i mali più evidenti del sistema economico italiano viene sempre individuato l’immobilismo sociale e l’assenza di meritocrazia. In che modo il suo progetto Flexsecurity riuscirebbe a incidere su questi due fattori?
Rendendo più fluido e aperto il mercato del lavoro, che oggi invece è molto chiuso ai new entrants, ai giovani. E questo senza indebolire la protezione della continuità del reddito e del lavoro per i lavoratori cui accada di perdere il posto, ma anzi rafforzandola. Un tessuto produttivo vischioso fa danno anche ai lavoratori, ostacolando l’incontro migliore e la selezione reciproca fra domanda e offerta di lavoro.
Un sistema che valorizza solo il merito, in un’ottica di efficienza e riduzione dei costi sociali, non rischia di abbandonare le persone più deboli?
Dipende dalle misure che si attivano per dare sostegno ai più deboli, per neutralizzare l’handicap che li indebolisce. Gli ultimi della fila, i più sfortunati, stanno molto meglio in Svezia e in Danimarca, dove si applica un regime di flexsecurity, che nel vischioso sistema italiano, dove chi è dentro è dentro e chi è fuori della cittadella protetta resta fuori e può contare soltanto sull’aiuto della propria famiglia.
Allo stesso modo un percorso di semplificazione delle norme, come quello che lei auspica, non rischia di creare anche generalizzazioni che alla fine possono produrre meno regole e favorire i soggetti più ricchi o potenti?
Non è così. Il nuovo Codice del lavoro in 64 articoli a cui sto lavorando non riduce affatto il livello delle protezioni, se non per qualche aspetto molto marginale, dove di fatto la vecchia disciplina non serve a nessuno. Il Codice semplificato (per il quale rinvio al “Portale della Semplificazione e della Flexsecurity nel mio sito web) riduce, questo sì, il volume della normativa legislativa, che è cosa totalmente diversa. E lo fa per poterla rendere davvero universale, applicabile a tutti i lavoratori cui occorre protezione.
Però, nella materia cruciale dei licenziamenti lei propone un mutamento radicale della tecnica protettiva rispetto a quella adottata nello Statuto dei lavoratori.
Sì, perché quella vecchia tecnica protettiva rispecchiava il modello dell'”operaio massa”, il modello della fabbrica fordista, un tessuto produttivo molto più statico di quello attuale. Sono convinto che la nuova disciplina proposta, il regime di flexsecurity, offra ai lavoratori una protezione complessivamente molto migliore rispetto alla vecchia e soprattutto estesa a tutti: è l’unico modo per superare il dualismo del nostro sistema attuale, il regime di apartheid tra protetti e non protetti. La riforma che propongo, comunque, non cambia nulla per chi oggi è già occupato con un lavoro stabile.
Spieghi meglio questo punto.
Proprio perché la riforma tocca, per questo aspetto, un “nervo scoperto” nel nostro Paese, propongo che la nuova disciplina si applichi soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno d’ora in avanti. Questo è il motivo per cui dico che la nuova disciplina deve essere valutata con gli occhi di un ventenne che entra oggi nel nostro mercato del lavoro, un mercato che gli offre, nella maggior parte dei casi, la prospettiva di una probabile lunga e penosa anticamera prima di accedere al lavoro regolare a tempo indeterminato.
Le esperienze di questi anni dimostrano che la ricerca di maggiore flessibilità nel mondo del lavoro in troppi casi si è trasformata in precariato, disagio e insicurezza. Dove si è sbagliato o comunque è necessario intervenire?

Si è sbagliato su due punti cruciali: si è introdotto la flessibilità soltanto al margine, nell’area dei “lavori atipici”, col risultato di dar vita al regime di apartheid di cui parlavamo prima; e, soprattutto, non si è sviluppato un sistema efficiente e universale di ammortizzatori sociali.
A suo avviso in che modo il sindacato dovrebbe operare per accompagnare la trasformazione del mondo del lavoro in termini più moderni?
Mettendosi di più nei panni dei giovani. E rivendicando che – senza toccare la posizione di chi è già dentro la cittadella del lavoro protetto – si ridisegni un diritto del lavoro per le nuove generazioni: tutti a tempo indeterminato, tranne ovviamente i pochi casi classici nei quali è ammesso il contratto a termine; nessuno inamovibile; tutti, però assistiti robustamente nel caso di perdita del posto. E’ la prospettiva della flexsecurity, appunto: conciliare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori.
Tra le obiezioni alla Flexsecurity vi è quella per cui non sarebbe necessario adottare nuovi meccanismi, ma è sufficiente applicare quelli attuali, a partire dalla Cassa Integrazione.
La Cassa integrazione serve egregiamente per evitare la dispersione della professionalità dei lavoratori quando c’è una prospettiva realistica di ritorno al lavoro nella stessa azienda. Ma non può essere quello lo strumento per garantire i lavoratori nei processi di aggiustamento industriale, nelle crisi occupazionali che richiedono la mobilità da un’azienda a un’altra.
In linea generale, come giudica il Libro Bianco del ministro Sacconi e fino a che punto lo ritiene compatibile con un modello di Flexsecurity?
Non vedo alcuna incompatibilità insuperabile in quel documento: semmai qualche rilevante lacuna da riempire.
Le banche negli ultimi dieci anni hanno realizzato un profondo processo di riorganizzazione, condiviso con le Organizzazioni Sindacali, anche grazie a un ammortizzatore sociale autofinanziato dal sistema del credito quale il Fondo per il sostegno del reddito. Come giudica questo strumento? Crede sia ancora funzionale ed eventualmente esportabile in altri settori?

Quella è stata una forma embrionale di flexsecurity: ha combinato l’aggiustamento industriale con la sicurezza dei lavoratori. Ma quello strumento ha il grave difetto di mandare in pensione i cinquantenni: questo è uno spreco che possiamo e dobbiamo evitare. E ha anche il difetto di limitare la propria operatività alla fascia dei lavoratori anziani.
Come giudica il dibattito sempre più acceso tra Governo e banche che si registra in questi mesi?
Non è materia di mia competenza. Però la mia impressione è che, se non si correggono i parametri oggettivi del vincolo Basilea 2, le banche non possono, neppure volendo, allargare più che tanto i cordoni del credito alle imprese: nel rispetto di quel vincolo, molte delle nostre banche già oggi sarebbero le prime a essere interessate a incrementare l’utilizzo della liquidità nel credito alle imprese, ma non trovano clienti che soddisfino quel criterio rigido.
Come giudica il comportamento del governo durante la crisi?
Allo scoppio della crisi, l’anno scorso, con l’annuncio della garanzia dello Stato per i depositi bancari, il Governo ha fatto la mossa giusta al momento giusto. Poi ha tirato i remi in barca e ha teorizzato e praticato l’immobilismo. Quest’ultimo lo vedo come un errore grave.
Che cosa avrebbe dovuto fare, secondo lei?
Mi limito alle materie in cui ho qualche competenza: lavoro e welfare. La crisi era ed è il momento giusto per attuare una riforma profonda degli ammortizzatori sociali; per spostare una parte della spesa sociale, oggi quasi totalmente concentrata sulle pensioni, sulle vere situazioni di bisogno: famiglie con persone non autosufficienti, povertà infantile, disoccupati senza sostegno, giovani senza prospettive di sicurezza pensionistica; per ridurre i contributi per la Cassa integrazione, dove il gettito contributivo dal 2003 al 2008 supera di quattro volte le prestazioni: la riforma che propongo nel nuovo Codice semplificato consentirebbe di ridurre la contribuzione sulle retribuzioni lorde del 2,5 per cento. Infine – ma io lo vedo come una priorità – questa fase di uscita dalla crisi e di grande incertezza è proprio il momento in cui occorre disegnare un nuovo diritto del lavoro che dia alle imprese maggiore flessibilità nei nuovi rapporti di lavoro in cambio di un ampliamento drastico delle assunzioni a tempo indeterminato e di un loro impegno sul terreno dei servizi nel mercato del lavoro.
La partecipazione: grande tema, attuale e scottante. Quali sono i cardini del suo disegno di legge, sul quale sembra essersi determinato un consenso bi-partisan in seno alla Commissione Lavoro del Senato?
Innanzitutto, la materia viene interamente affidata al sistema delle relazioni sindacali in azienda: nessuna delle nove forme di partecipazione individuate nel primo articolo viene attivata se non sulla base di un accordo: il “contratto istitutivo”. La proposta affronta, poi, nel secondo articolo, il nodo della necessaria selezione dell’agente contrattuale, quindi della rappresentanza sindacale in azienda: lo fa con una disposizione molto leggera e di default, cioè destinata ad applicarsi soltanto in mancanza di una disciplina contrattuale collettiva applicabile. Passa quindi a disciplinare la partecipazione dei lavoratori ai Consigli di sorveglianza, la partecipazione azionaria e la possibile “scommessa comune” dei lavoratori con l’imprenditore su di un piano industriale innovativo.
I vantaggi per i lavoratori, quali sono?
Questo intervento legislativo, nel rispetto più rigoroso dell’autonomia del sistema di relazioni industriali, cioè senza imporre nulla a nessuno, allarga però gli spazi per lo sviluppo, in varie possibili forme, della scommessa comune tra imprenditore e lavoratori sull’innovazione. L’innovazione è la via maestra per aumentare la produttività e quindi valorizzare meglio il lavoro e aumentare le retribuzioni. Aprire questi spazi significa anche favorire gli investimenti stranieri: il nostro è ancora un sistema troppo chiuso, incapace di intercettare i flussi di capitali nel mercato globale.
Perché è così difficile parlare di partecipazione in Italia?
Perché se ne è parlato sempre come di un possibile modello da imporre al sistema delle relazioni industriali. Invece le forme di partecipazione possibili sono molte. Ed è bene che modelli diversi di partecipazione possano confrontarsi e competere nel nostro sistema. Così come è bene che, se dall’altra parte del tavolo c’è un imprenditore poco affidabile, i lavoratori si tengano ben abbottonati, chiedano più garanzie che spazi di partecipazione. È proprio in questa valutazione circa la qualità dell’imprenditore e del suo piano industriale, quindi circa l’opportunità o no della “scommessa comune”, che si vede la capacità del sindacato di operare come intelligenza collettiva dei lavoratori.

 

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