L’EMENDAMENTO DELLA MAGGIORANZA SUL SALARIO MINIMO

L’iniziativa del Governo in Parlamento mira a potenziare gli effetti dei contratti collettivi; ma il lavoro povero o poverissimo si annida per lo più dove il contratto collettivo non arriva proprio

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Intervista a cura di Tobia De Stefano pubblicata su
La Verità il 18 novembre 2023 – Il testo dell’emendamento presentato dalla maggioranza al progetto di legge dell’opposizione è disponibile qui – Sul tema del salario minimo v. anche la mia intervista all’Agenzia ADN Kronos, Sul parere espresso dal Cnel in tema di salario minimo 

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Professore lei ha evidenziato una sorta di metodo Cgil, con lo sciopero si punta a fermare i trasporti per paralizzare il Paese. Ci può spiegare meglio?
Non ho mai parlato di un “metodo Cgil”. Ho osservato che in qualsiasi sciopero generale il blocco dei trasporti svolge una funzione – per così dire – di sostegno alla riuscita dell’agitazione, costringendo a casa anche chi non intenderebbe astenersi dal lavoro. Nel caso dello sciopero generale proclamato per la giornata di ieri da Cgil e Uil, poi, la questione era resa particolarmente delicata dalla non partecipazione della Cisl: un blocco dei trasporti per l’intera giornata avrebbe rischiato di comprimere indebitamente il diritto al lavoro di una parte molto consistente dei lavoratori.

Ha fatto bene, dunque, il Garante a sostenere che non si tratta di sciopero generale e il governo a precettare?
Sul piano strettamente formale, a me sembra che potesse essere qualificato come “sciopero generale” quello che ha interessato il Centro Italia, non quello che ha interessato il Nord e il Sud, dove l’agitazione riguardava soltanto amministrazioni pubbliche e trasporti. È probabile, però, che nella decisione dell’Autorità Garante abbia giocato proprio la preoccupazione di assicurare il diritto di autodeterminazione di tutte le persone che non aderiscono all’agitazione proclamata da Cgil e Uil.

Ritiene che con Landini l’azione della Cgil si sia politicizzata?
Il carattere “politico” di questo sciopero non è certo una novità nella storia della Cgil, antica e recente. La novità, semmai, è la curiosa sovrapponibilità dei motivi di opposizione alla legge finanziaria, che questo sciopero intende far valere, con gli obiettivi di modifica della stessa legge che si era proposto il ministro delle Infrastrutture Salvini, in contrasto col ministro dell’Economia e con Palazzo Chigi: “superamento all’indietro” della riforma Fornero delle pensioni, aumento della spesa corrente, sforamento del limite del deficit di bilancio concordato con Bruxelles, conseguente scontro con la UE, e ovviamente aumento del debito pubblico tutto a carico delle generazioni future.

Che giudizio dà della scelta della Cisl di smarcarsi?
La Cisl non ha alcun motivo per dare il proprio avallo a una così netta politicizzazione dell’azione sindacale, tanto meno quando il segno politico è questo, fortemente connotato nel senso del non rispetto degli impegni assunti con l’UE. La Cisl intende invece sottolineare il proprio radicamento dentro le aziende e la propria attenzione agli interessi concreti delle persone che vivono del proprio lavoro, la rivendicazione di una maggiore loro partecipazione in seno all’impresa e una rinnovata attenzione alle loro necessità di assistenza nel mercato del lavoro, e in particolare nelle transizioni professionali.

E della scelta della Uil?
La Uil di Bombardieri oggi è certamente più vicina, anche idealmente, alla Cgil che alla Cisl.

Sciopero o non sciopero, il problema dei salari esiste ed è un problema che ha origini lontane. Qual è il difetto originario del sistema?
La produttività media del lavoro italiano ristagna da un quarto di secolo. Così stando le cose, che ristagnino anche le retribuzioni è inevitabile. C’è, però, un problema ulteriore riguardante le fasce di professionalità più bassa, dove il livello salariale è patologicamente esiguo. Qui una correzione è necessaria subito.

La maggioranza punta sulla contrattazione; scelta giusta?
Rafforzare il sistema della contrattazione collettiva è importante; ma per questo è indispensabile porre mano all’articolo 39 della Costituzione. Il problema, comunque, è che il lavoro povero, e ancor più quello poverissimo, si annida soprattutto in pieghe del tessuto produttivo nelle quali la contrattazione collettiva non arriva proprio. Per questo è necessario uno standard minimo che abbia il carattere dell’universalità. Ma, come accade in Gran Bretagna, deve essere in qualche misura modulato.

Quale può essere, secondo lei, questo standard minimo?
Una cosa è certa: se lo standard è uguale, in termini monetari, per tutto il territorio nazionale, o è troppo basso per il Nord, o è troppo alto per il Sud. Occorre dunque stabilire uno standard-base che corrisponda a un valore intermedio tra le retribuzioni orarie minime previste dai contratti collettivi seri, stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative; ma occorre poi che esso sia adattato, in base a un indice calcolato dall’Istat, in relazione al potere effettivo di acquisto della moneta nelle varie zone. Per intenderci, con 8 euro all’ora a Crotone forse si può vivere, a Milano certamente no.

Questo per lo standard minimo. Ma qual è il modo per far tornare a crescere le retribuzioni medie degli italiani?
Nell’immediato c’è un solo modo: favorire la transizione delle persone dalle aziende decotte o marginali a quelle più produttive, che cercano e non trovano il personale di cui hanno bisogno. Per questo, ovviamente, occorre predisporre dei percorsi efficaci, ed economicamente incentivati, di formazione mirata alle centinaia di migliaia di posti di lavoro che oggi restano scoperti per difetto delle politiche attive del lavoro.

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