COME CI SI ASSICURA MEGLIO CONTRO LA DISOCCUPAZIONE SENZA CORRERE IL RISCHIO DI ALLUNGARLA

IL PROBLEMA PIU’ DIFFICILE DA RISOLVERE, PER LA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI, NON E’ TANTO QUELLO DEL REPERIMENTO DI FONDI, QUANTO QUELLO DI EVITARE CHE IL SOSTEGNO DEL REDDITO ALLUNGHI I PERIODI DI DISOCCUPAZIONE. PER QUESTO E’ ESSENZIALE UN RAPIDO E DRASTICO MIGLIORAMENTO DEI SERVIZI DI ASSISTENZA NEL MERCATO, CHE PUO’ ESSERE OTTENUTO SOLTANTO SE SI ATTIVANO GLI INCENTIVI ECONOMICI GIUSTI, COINVOLGENDO DIRETTAMENTE LE IMPRESE

Editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 12 gennaio 2009

Caro Direttore, il problema degli “ammortizzatori sociali”, che il Presidente Napolitano nel suo discorso di fine anno ha messo al primo posto nella lista delle riforme urgenti, non è principalmente quello del reperimento di fondi pubblici da destinare a chi perde il lavoro. Il problema è che, se il trattamento offerto ai disoccupati consiste soltanto in un sostegno del loro reddito, questo rischia di produrre l’effetto di rallentare la ricerca del nuovo lavoro, allungando i periodi di disoccupazione.

            Se si vuole evitare questo effetto, occorre che il sostegno del reddito sia offerto soltanto a chi è effettivamente impegnato nella ricerca del nuovo lavoro. Ma in Italia questa “condizionalità” dei trattamenti di disoccupazione, pur prevista dalla legge, di fatto non funziona. Ciò spiega almeno in parte il mantenimento del basso livello e della ridotta area di applicazione dei nostri trattamenti di disoccupazione: quello “ordinario” ‑ pari al 60 per cento dell’ultima retribuzione per 6 mesi, che si riduce al 50 nel settimo mese e al 40 nell’ottavo, sempre comunque con un tetto intorno ai mille euro – non si applica a milioni di lavoratori atipici: lavoratori a progetto, o “partite iva” in condizione di sostanziale dipendenza. Nel settore industriale si applica un “trattamento speciale” pari all’80 per cento dell’ultima retribuzione per un anno, ma anch’esso con lo stesso limite massimo. Vero è che nell’industria è molto frequente l’abuso della Cassa integrazione, utilizzata per mascherare il sostanziale licenziamento; ma questo, lungi dal risolvere il problema, lo aggrava, perché più dura il periodo di disoccupazione, ancorché mascherato, più diventa difficile ricollocare il lavoratore.
            In che cosa può consistere, dunque, una riforma seria dell’assicurazione contro la disoccupazione? Trovare qualche centinaio di milioni da distribuire a chi oggi ne è ancora escluso è abbastanza facile; ma come è pensabile che il nostro Paese si doti rapidamente e in modo capillare dei servizi nel mercato del lavoro indispensabili perché quel denaro possa essere speso bene, senza effetti controproducenti? Nell’immediato, per far fronte agli effetti della crisi economica in atto il massimo che si può fare è cercare – come si sta facendo – di tamponare in qualche modo le falle più grosse. Ma questo evidentemente non basta: occorre gettare le basi di un nuovo sistema, capace di garantire tutti, senza produrre un allungamento dei periodi di disoccupazione.
            La quadratura del cerchio è possibile solo se, insieme agli ammortizzatori sociali, si riforma anche la disciplina dei nuovi rapporti di lavoro e si attivano gli incentivi economici giusti per il miglioramento dei servizi nel mercato. Per esempio: ipotizziamo che i nuovi rapporti siano quasi tutti a tempo indeterminato e che, in cambio, l’impresa venga esentata dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento (controllo di fatto impossibile: è bene che il giudice si limiti a controllare soltanto che il motivo non sia discriminatorio); ipotizziamo, ancora, che all’impresa venga chiesto di integrare il trattamento di disoccupazione, in modo da garantire all’ex-dipendente il 90 per cento durante il primo anno dal licenziamento; poi, se la disoccupazione continua, l’80 per cento nel secondo anno e il 70 nel terzo; e che al lavoratore venga posta come condizione, per godere di questa robusta garanzia economica, di accettare di essere affidato a un’agenzia specializzata scelta dalla stessa impresa, possibilmente di concerto con i rappresentanti sindacali aziendali, la quale curerà tutte le misure per la ricerca della nuova occupazione e la riqualificazione mirata, controllando giorno per giorno la partecipazione del lavoratore stesso e la sua disponibilità reale. Il costo per l’impresa del trattamento complementare, nel primo anno, sarebbe molto ridotto (poiché in questo periodo il grosso, come si è visto, è a carico dell’Inps), ma sarebbe alto nel secondo e terzo anno; l’impresa avrebbe dunque un forte interesse a operare per il ricollocamento del lavoratore entro il primo semestre, o al più entro il primo anno. Ci si potrebbe dunque attendere che l’agenzia prescelta attivi i servizi più adeguati di outplacement, per la più rapida e soddisfacente soluzione del problema.
           A questa ipotesi di riforma la Confindustria obietta che essa costerebbe troppo alle imprese. È lecito dubitare della fondatezza di questa obiezione, se si considera che, secondo i dati disponibili, anche con i servizi al basso livello attuale più di quattro lavoratori su cinque che perdono il posto in Italia ne ritrovano uno entro il primo anno. Se poi lo Stato farà la sua parte incrementando il trattamento di disoccupazione e le Regioni copriranno almeno parte del costo dei servizi di outplacement, l’obiezione potrà essere superata del tutto.

 

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