IL DIBATTITO SULLA RIFORMA FORENSE – 6. SOTTRATTA AL MERCATO ANCHE LA CONSULENZA

LA MAGGIORANZA NON SA FORNIRE GIUSTIFICAZIONI PER QUESTA IRRAGIONEVOLE RISERVA DI ATTIVITA’ IN FAVORE DEGLI AVVOCATI

Selezione degli interventi nel dibattito al Senato sulla riforma dell’avvocatura, tratti dal resoconto stenografico delle sedute del 2 , 3 e 4 novembre 2010 – Gli interventi estratti dalle sedute precedenti sullo stesso disegno di legge sono agevolmente reperibili nella sezione Giustizia di questo sitoIl dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense -1; Il dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense -2Il dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense -3; II dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 4. La questione dei minimi inderogabili; Il dibattito sulla riforma dell’ordinamento forense – 5. Le incompatibilità professionali

Sommario
1. Sull’ordine dei lavori

2. Sulla consulenza stragiudiziale dei professionisti non iscritti all’albo
3. Sulla natura degli studi legali secondo il diritto comunitario
4. Sull’attribuzione del titolo di specialista
5. Sull’aggiornamento professionale
6. Sulle tutele nel rapporto di lavoro di molti avvocati collaboratori di studio
7. Sulla nomina dei difensori d’ufficio
8. Sulla incompatibilità della professione di avvocato con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato
9. Sul potere esclusivo di rappresentanza dell’avvocatura e la norma assurda sulla dislocazione della sede del Consiglio Nazionale Forense

1. – SULL’ORDINE DEI LAVORI

FINOCCHIARO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO (PD). Signora Presidente, credo sia opportuno intervenire sull’ordine dei lavori prima di riaprire la discussione in Aula sul provvedimento di riforma dell’ordinamento forense.
Come i colleghi ricorderanno, nella scorsa seduta – l’ultima nella quale ci siamo occupati di questo testo – si era presa la decisione, a nostro avviso saggia, e condivisa dal presidente Schifani, di riportare il testo in Commissione perché fossero dipanate alcune questioni che erano così controverse da legittimare la presentazione di 400 emendamenti e, peraltro, l’ulteriore voto su 60 articoli del testo. La Commissione, purtroppo, non è servita in alcun modo a dipanare tali questioni, né ad approfondirle – mi permetto di dire fuori dai denti – e neanche ad ascoltare le ragioni dell’opposizione o di coloro i quali comunque sono critici nei confronti di questo provvedimento, né a trovare una soluzione condivisa o a spiegare le ragioni per le quali alcune posizioni vengono sostenute in maniera così recisa.
Avevamo peraltro ridotto a cinque i punti di esame del testo, che costituiscono il cuore della novità di un ordinamento forense che interviene a distanza di settant’anni, o forse di più, dall’ultimo testo che governa e regola la materia. I punti in questione riguardavano la concorrenza, i giovani professionisti (importantissima questione, direi pregiudiziale per il Gruppo del Partito Democratico), la cancellazione dall’albo (abbiamo avuto una surreale discussione sul fatto che non si è riusciti neanche ad approvare la norma che prevede che non possano essere più iscritti all’albo gli avvocati che abbiano riportato una sentenza di condanna passata in giudicato per reati di mafia), la forma dell’organizzazione degli studi legali (questione in discussione altrove e pienamente risolta in tutta Europa, tra l’altro essenziale per garantire la competitività dei nostri professionisti rispetto agli altri colleghi europei) e, infine, i poteri disciplinari del Consiglio nazionale forense (ben sapendo che la questione della giurisdizione domestica sulle questioni disciplinari è all’ordine del giorno, per esempio, per quanto riguarda la magistratura, e trova, sia pure con soluzioni diverse, accenti unanimi in tutto il Parlamento italiano). Queste cinque questioni, essenziali per ridisegnare la professione dell’avvocato e consentire l’apertura del mercato di questa professione liberale ai giovani professionisti, sono state oggetto di una chiusura assoluta da parte della maggioranza. Torniamo in Aula con le stesse rigidità di prima e, purtroppo, in un clima politico che non solo non è rasserenato ma trova e troverà invece accenti di maggiore animosità e contrapposizione. È un peccato, perché questo è esattamente uno dei capitoli della modernizzazione del Paese.
In sede di Conferenza dei Capigruppo ho chiesto al presidente Schifani di poter disporre di più tempo per discutere: chiuderemo infatti l’esame di questo testo la settimana prossima. Vorrei però rivolgermi, se possibile, ai colleghi della maggioranza, anche di fronte alle interessantissime prese di posizioni che sono venute in quest’ultimo periodo dalla Confindustria e senza volere in nessun modo rallentare un iter che probabilmente è anche giusto trovi il suo esito prima del congresso nazionale del CNF; insomma, è una questione essenziale per ridisegnare il profilo della competitività dell’Italia e mi chiedo se sia questo il modo per affrontarla.
Ciò, tra l’altro, pone un’ulteriore questione, cui accenno soltanto perché non voglio rubare più tempo all’Aula. Le Commissioni del Senato e probabilmente le Commissioni parlamentari in genere non riescono più ad essere, anche in ragione dell’organizzazione dei lavori che dedica troppo poco tempo alle stesse, il luogo di un’istruzione dei provvedimenti che possa sfuggire all’animosità, che è normale si sviluppi nell’Aula, e veda invece i propri lavori affidati alle qualità di competenza, capacità di approfondimento e rispetto delle posizioni reciproche tra i diversi Gruppi rappresentati in Parlamento. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, desidero solo far osservare che abbiamo accantonato l’articolo 17, che tratta la materia delle incompatibilità, e che l’articolo 18 ha come oggetto le eccezioni alle norme sulle incompatibilità. Qualcuno può spiegarci come sia possibile discutere delle eccezioni se non sappiamo ancora quali sono le norme generali sulle incompatibilità? Questo è solo un esempio, perché potremmo farne altri dieci.
Gli articoli che abbiamo accantonato stabiliscono principi generali della materia. Più si va avanti e più si va nel dettaglio. Non è materialmente possibile e non ha alcun senso logico procedere nella discussione, senza conoscere la sorte degli articoli accantonati. (Applausi dal Gruppo PD).

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signora Presidente, allo stato abbiamo 83 emendamenti accantonati che riguardano i primi 16 articoli. Poi c’è l’accantonamento di tutti gli emendamenti che riguardano l’articolo 17 e c’è, obiettivamente, il problema che riguarda l’articolo 18, strettamente correlato all’articolo 17. Ciò che è stato accantonato è anche materia emendata dalla Commissione, su cui quindi c’è stato un voto della Commissione; inoltre, non è questione di due o tre emendamenti – nel qual caso potrei anche capire – ma di ben 83 emendamenti: quindi, si tratta di una materia molto vasta. Pertanto, la ragionevolezza imporrebbe forse di cominciare dagli accantonati per avere una visione organica di ciò che stiamo affrontando. Penso che tale soluzione sia più ragionevole. Questi emendamenti, peraltro, devono comunque essere votati: si tratta di votarli prima o dopo, e io propongo che lo si faccia con ordine. Pertanto, sono favorevole a partire dall’articolo 1.

VALENTINO, relatore. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALENTINO, relatore. Signora Presidente, gli emendamenti accantonati sono stati ampiamente trattati nei lavori svolti in Commissione. Io ho valutato che, per una maggiore snellezza, la trattazione dovesse proseguire a partire dal punto in cui abbiamo interrotto la discussione in Aula. Tuttavia, poiché la questione non è fondamentale, modifico la mia precedente opposizione e mi associo alla richiesta avanzata dalla senatrice Della Monica.

PRESIDENTE. Allora, signor relatore, lei è favorevole a riprendere dall’esame degli emendamenti accantonati e, in particolare, da quelli presentati all’articolo 1. Quindi, sulla richiesta avanzata dalla senatrice Della Monica, sentiti i rappresentanti dei Gruppi parlamentari e il relatore, si decide di riprendere i lavori partendo dagli emendamenti accantonati e, dunque, dall’articolo 1.Faccio notare, però, che all’articolo 1 sugli emendamenti 1.208 (testo 4)/1 e 1.208 (testo 4)/2, presentati dalla senatrice Della Monica e da altri senatori, e 1.208 (testo 4), presentato dalla Commissione, manca il parere della 5a Commissione permanente.Inoltre, il relatore ha testé presentato l’emendamento 1.501, con il quale si propone di sostituire le parole “previo parere” con le altre: “su proposta”.Onorevoli colleghi, mi scuso, ma vi è un po’ di difficoltà anche nella trasmissione degli atti. È pervenuto in questo momento il parere della 5a Commissione permanente su alcuni emendamenti, compresi quelli relativi all’articolo 1. Invito pertanto il senatore Segretario a dare lettura di tale parere.

[…]

2. – SULLA CONSULENZA STRAGIUDIZIALE DEI PROFESSIONISTI NON ISCRITTI ALL’ALBO

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, questi emendamenti riguardano uno dei punti più rilevanti e più gravi del provvedimento in esame. Il comma 6 dell’articolo 2 pretende di inibire a chi non è iscritto all’albo degli avvocati l’esercizio della consulenza in materia legale (parliamo ovviamente di consulenza stragiudiziale).
Noi non possiamo procedere su questo terreno se non considerando attentamente il fatto che le nostre università sfornano ogni anno decine di migliaia di laureati in giurisprudenza, dei quali meno del 10 per cento si iscriverà a un albo degli avvocati; tutti gli altri sono destinati a esercitare le loro conoscenze giuridiche al di fuori della professione forense. Con questa proposta noi metteremmo fuori legge la maggior parte di loro, perché la maggior parte di loro non diventerà neppure legale di impresa.
Ci sono poi i laureati in scienze politiche. Anche questa laurea comporta uno studio rilevante del diritto, così come si studia diritto anche nelle facoltà di ingegneria e di economia e commercio. Tutti i laureati di queste altre facoltà si vedrebbero inibita la possibilità di esercitare le proprie conoscenze giuridiche in un rapporto professionale, in quanto a loro è evidentemente impedita in modo assoluto l’iscrizione all’albo degli avvocati. Questa è una scelta gravissima e – arrivo a dire – anche incostituzionale, perché è evidente che non c’è alcuna ragione di carattere economico o sociale per questa limitazione, se non quella di creare una rendita di posizione per il ceto forense.
Datemi un solo motivo per cui debba essere vietato a un laureato in scienze politiche, in economia o in legge, che non sia iscritto all’albo, di esercitare le proprie conoscenze giuridiche nel proprio lavoro, anche a vantaggio di un cliente o di un committente con il quale abbia instaurato un rapporto professionale: se non mi sapete dare una ragione per questo, dovete riconoscere che questa norma, non avendo ragion d’essere, è irragionevole e incostituzionale.
Esistono addirittura delle professioni vere e proprie per le quali non è prevista alcuna regolamentazione e che non sono inquadrate in albi o ordini, come per esempio quella degli amministratori di condominio o dei periti d’infortunistica stradale, che tuttavia hanno una loro identità, una loro storia e una loro autocoscienza professionale collettiva. Sono professionisti che lavorano quotidianamente con le leggi e il codice in mano: avete mai visto un amministratore di condominio che non prenda in mano il codice per consigliare i condomini sul come si deve affrontare una questione piuttosto che un’altra? Ebbene, in teoria, secondo la norma che vi apprestate ad approvare, agli amministratori di condominio sarebbe vietato di esercitare la loro attività a favore dei condòmini.
In ogni caso, se proprio volete che questa norma venga approvata, almeno formulatela in un modo tecnicamente accettabile. Voi dite che è consentito – bontà vostra! – al non iscritto all’albo esercitare le proprie competenze giuridiche soltanto in favore del datore di lavoro, purché sia esclusivamente nel suo interesse, nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato oppure di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Il nostro ordinamento conosce però almeno altri dieci tipi legali di contratto, in cui l’attività personale e intellettuale del prestatore può essere dedotta come oggetto: penso, per esempio, al lavoro a progetto, al contratto di società con il lavoro come conferimento personale, al lavoro in partecipazione, al lavoro cooperativo, al contratto d’opera, e persino al lavoro gratuito dei volontari.
Indicatemi voi un solo motivo per cui deve essere consentito mettere le proprie conoscenze giuridiche a disposizione del proprio datore di lavoro solo nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, ma non in una di quelle altre dieci forme di contratto in cui il proprio lavoro può essere oggetto della prestazione. Anche questo non ha senso, ed è pertanto irragionevole e incostituzionale la norma che pone questo divieto.
Vi chiedo, per la dignità di quest’Aula, di dare una risposta a queste domande. Se non lo farete e tuttavia respingerete l’emendamento in discussione, compirete un atto irragionevole. (Applausi dal Gruppo PD).

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signor Presidente, condivido il giudizio del senatore Ichino, nel senso di ritenere che questo sia uno dei passaggi più significativi del disegno di legge in esame.
Noi, come Gruppo dell’Italia dei Valori riteniamo che la consulenza legale debba essere riservata a chi abbia il titolo per renderla. Senatore Ichino, lei ha chiesto un esempio. Immaginiamo il caso di un atto di querela, che non è un atto del giudizio, ma di impulso al giudizio, che venga redatto non da un avvocato, ossia da chi si assume la responsabilità dell’atto che va a compiere il cliente; o il caso di una denunzia, che non è un atto del giudizio, poiché precede il giudizio. Per determinate attività si richiede una particolare preparazione – nella speranza che questa ci sia – perché le conseguenze degli atti che precedono il giudizio, e quindi sono stragiudiziali… (Commenti del senatore Ichino). La querela non è un atto giudiziale, senatore Ichino, bensì un atto stragiudiziale, perché introduce: è una richiesta di giudizio. Mi dispiace doverla contraddire. La querela, pur se ne parla il codice, non è un atto giudiziale. (Applausi dai Gruppi IdV e PdL).
Si tratta di una questione tecnica. La querela è una richiesta di giudizio: quaero, richiedo; è un’invocazione di giudizio, non è un atto giudiziale. Affidato alla gestione di chi non sia avvocato, e che quindi non si assume la responsabilità di ciò che va a compiere il querelante, è un atto, questo sì, di irresponsabilità, e di questo noi dovremmo rispondere ai cittadini. (Applausi dei senatori Benedetti Valentini e Spadoni Urbani).È come dire che la consulenza medica la può fare anche un infermiere. (Applausi dai Gruppi IdV e PdL).

[…]

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signora Presidente, noi voteremo contro questo emendamento, coerentemente con le posizioni da noi assunte. Una consulenza stragiudiziale finalizzata alla stipula di accordi transattivi – il che significa finalizzata ad atti che hanno un valore giuridico e che rientrano nell’ambito di normative – è ancora più delicata dell’attività giudiziale, perché si tratta di definire stragiudizialmente rapporti che hanno una ricaduta nel campo del diritto, senza il controllo di un giudice. L’attività giudiziale è addirittura meno compromettente di questa.
Noi abbiamo fatto una opzione. Ovviamente, il voto sugli emendamenti di questo disegno di legge non ha un contenuto politico ed ideologico. Rivendichiamo quindi la libertà di poterci esprimere liberamente, senza farci condizionare da giudizi politici. Stiamo discutendo di un tentativo di riformare la professione forense dopo settant’anni; speriamo di riuscirci. Non sarà un ottimo lavoro, ma ci sforziamo in questa direzione. Quindi non accogliamo lezioni da nessuno: abbiamo libertà e capacità di determinarci liberamente. Voi siete intruppati in una gabbia ideologica. (Applausi dai Gruppi IdV, PdL e LNP. Commenti dal Gruppo PD).

[…]

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento 2.245 (testo 5)/3.

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, intervengo su questo emendamento e sul successivo. Vorrei richiamare molto brevemente due punti. In questa legge stiamo vietando non solo l’attività di assistenza giudiziale, ma anche quella di consulenza stragiudiziale in materia giuridica, anche la più generica, a chiunque non eserciti la professione in modo continuativo a tempo indeterminato per l’intera vita; cioè stiamo tagliando fuori chiunque si occupi di diritto in modo marginale.
Mi chiedo, e chiedo a voi, se questa scelta, che viene compiuta con grande severità, non dovrebbe accompagnarsi quantomeno ad una delimitazione dell’attività di consulenza riservata agli iscritti. Se questa è la logica della legge, definiamo almeno qual è la consulenza sulla quale vogliamo applicare questa restrizione così drastica. Ieri abbiamo sentito il collega Li Gotti spiegarci che l’atto di querela, cioè l’atto con cui si attiva un procedimento penale in materia di diffamazione o per altro reato, è atto stragiudiziale. Va bene; ma allora elenchiamo gli atti di questo genere riservati all’avvocato e lasciamo fuori almeno tutte le altre attività che presuppongono una qualche pratica del diritto. Penso al diritto d’autore di cui può occuparsi un agente editoriale, al diritto urbanistico di cui può occuparsi un architetto, al diritto dei brevetti di cui può occuparsi un agente del settore, al diritto della proprietà condominiale di cui si occupa quotidianamente un amministratore di condominio nell’attività svolta per i propri committenti, e ad altre materie nelle quali oggi centinaia di migliaia – anzi, milioni! – di operatori professionali devono in qualche modo maneggiare la legge, esercitano un’attività in cui si tratta in qualche modo di diritto; essi verrebbero in questo modo amputati della loro facoltà di trattare di una parte rilevante delle materie di loro competenza.
Rinnovo poi la richiesta già posta nella seduta di ieri. Qui noi legittimiamo ad occuparsi di diritto i non iscritti all’albo, che siano dipendenti di un datore di lavoro, purché lo facciano solo nei confronti di quest’ultimo. Ieri ho ricordato che l’attività di consulenza può essere dedotta anche in contratti diversi dal lavoro subordinato o dalla collaborazione continuativa. Mi riferisco – per esempio – al lavoro a progetto, al lavoro cooperativo, al conferimento di lavoro in società, al lavoro in partecipazione, al contratto d’opera (articolo 2222 del codice civile). Se è così, per quale motivo, con questo emendamento della Commissione, dobbiamo limitare al solo contratto di lavoro dipendente la possibilità di esprimere una attività della persona e non consentirlo invece anche negli altri tipi legali di contratto? Su questo punto chiedo al relatore e al Governo di fornirci una spiegazione. Se non verrà data, questo confermerà che la norma è irragionevole, quindi incostituzionale. (Applausi del senatore Morando).

[…]

BENEDETTI VALENTINI (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI VALENTINI (PdL). Sarò molto breve. Non voglio favorire l’ostruzionismo o le resistenze, tutt’altro, non sono così ingenuo. Ogni tanto, però, anche un nostro pronunciamento non ci sta male: se non lo facessimo, coloro che ascoltano e sentono inveire potrebbero pensare che siamo portatori di tesi non solo diverse – il che è davvero legittimo – ma addirittura oscurantiste, illiberali e anticostituzionali. (Applausi ironici della senatrice Poretti e del senatore Perduca). Tutto questo è grottesco. Questi toni, per gentilezza, risparmiateveli!
Senatrice Poretti, mi chiedo se lei concepirebbe un medico che, anche al di fuori della struttura chirurgica o ospedaliera, rilasciasse consulenze e ricette per le quali non fosse abilitato o che non fossero riservate a quel professionista. Noi oggi chiediamo anche all’idraulico di essere fortemente professionalizzato e di rilasciare un certificato di regolare impianto che garantisca l’utente o il proprietario dell’impianto installato: in sostanza, esigiamo un certo rigore. Lei invece pretende che colui che eventualmente – come affermato dal senatore Li Gotti – assiste ad una transazione (oggi l’attività del serio avvocato è molto più stragiudiziale che non giudiziale e le sue responsabilità sono più forti nel favorire una transazione o una scrittura transattiva, che può dare luogo a nuove incidenze forti nella sfera giuridica dei contraenti) sia un orecchiante, un mestierante, un mozzaorecchie.
Un consiglio lo può dare anche un profano: ti consiglio, ad esempio, di fare causa o di lasciare la causa; sarebbe come dire ad un vicino: mangia senza sale se hai la pressione alta. Lo può dire anche un profano. Ma chi rilascia una consulenza come tale dev’essere un professionista serio e non l’avvocataccio all’angolo della strada o sotto il lampione, come certo iperliberismo mercatista vorrebbe sostenere in chiave di dottrina professionale. (Proteste della senatrice Poretti). Mi dispiace, la filosofia è questa. Quando dite che in Commissione non abbiamo voluto confrontarci, dite cosa falsa: abbiamo semplicemente e onestamente un’impostazione diversa e democraticamente cerchiamo di farne valere gli argomenti. Tutto qui. (Applausi dal Gruppo PdL).

GARAVAGLIA Massimo (LNP). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GARAVAGLIA Massimo (LNP). Signora Presidente, intervengo in dichiarazione di voto, anche se personalmente non ho ancora ben capito come votare e chiedo agli avvocati o a chi conosce la materia di chiarirmi un dubbio. Vorrei sapere come si lega il testo rispetto alla conciliazione, che da marzo diventa obbligatoria; vorrei sapere se la conciliazione obbligatoria la potranno fare solo gli avvocati, oppure no. Vorrei avere dei chiarimenti al riguardo per poi votare di conseguenza. (Commenti del senatore Morando).

PRESIDENTE. Chiedo al relatore se intende intervenire per chiarire questo aspetto.

VALENTINO, relatore. Signora Presidente, l’emendamento 2.245 (testo5) della Commissione disciplina un po’ tutte le materie e armonizza una serie di esigenze che oggi sono state evocate – lo dico con tono sommesso – un po’ a sproposito. Basta leggere il testo che recita: «Fuori dai casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per esercenti altre professioni regolamentate, l’attività di consulenza e di assistenza legale stragiudiziale è riservata agli avvocati. È comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata…».
In sostanza, si possono instaurare dei rapporti che consentono ad aree vaste del mondo professionale (fatti salvi naturalmente coloro che svolgono attività espressamente regolamentate) di porre in essere tutte quelle iniziative che non siano l’attività legale. Abbiamo limitato quest’ultima agli avvocati, nel solco di un’esigenza fortemente avvertita, ma ci siamo resi conto che per far questo dovevamo determinare un professionista di alto livello. Abbiamo così imposto l’aggiornamento costante e richiesto per la specializzazione corsi continui. Peraltro, abbiamo affidato responsabilità certamente non secondarie – e questo è emerso nel corso del dibattito – a soggetti che avevano la capacità di assolvere a quegli impegni.
Vi è poi una serie di altre attività che possono essere realizzate nel quadro di rapporti, anche contenziosi, tesi alla conciliazione, alla sintesi e così via; queste possono essere svolte da soggetti iscritti, le cui professioni siano regolamentate. Certamente il quidam de populo non può fare la conciliazione, ma a mio avviso può fare il consulente del lavoro. Questa è la mia interpretazione.

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signora Presidente si ricevono continuamente sollecitazioni, quasi che l’avere individuato requisiti per svolgere determinate e delicate funzioni (quale la consulenza stragiudiziale) sia qualcosa di ottuso rispetto alla modernità dei tempi. Quando in Commissione abbiamo esaminato il provvedimento, siamo stati – l’emendamento in esame è frutto di tale previsione – favorevolmente impressionati dal comma 5 dell’articolo 2 del disegno di legge n. 711, a prima firma del senatore Casson (pagina 86 del fascicolo), dove si afferma: «È riservata, altresì, agli avvocati l’attività, svolta professionalmente, di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale in ogni campo del diritto, fatte salve le particolari competenze riconosciute dalla legge ad altri lavoratori per particolari settori del diritto».
Questo è il principio che ha trovato un’esplicitazione più ampia nell’emendamento in esame; noi non ci siamo allontanati da questa prospettazione perché la condividiamo, la consideriamo giusta.

PRESIDENTE. Invito il senatore Segretario a verificare se la richiesta di votazione con scrutinio simultaneo, avanzata poc’anzi dalla senatrice Poretti, risulta appoggiata dal prescritto numero di senatori, mediante procedimento elettronico.

[…]

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, vorrei segnalare che, bocciando questo emendamento così come gli altri che abbiamo presentato, si vieta – per esempio – a un sindacato o ad un’associazione imprenditoriale di dare consulenza in materia di diritto del lavoro, di diritto industriale o di qualsiasi altra branca del diritto, a soggetti che non siano iscritti all’associazione medesima. Ciò significa che dovrete mandare gli ispettori in tutte le camere del lavoro della CGIL, le unioni sindacali provinciali della CISL e dell’UGL, per reprimere ciò che oggi avviene quotidianamente e in modo assolutamente pacifico.
Se non è questo che volete, fermiamoci un attimo per pensarci, perché questo è quanto stiamo votando al momento. A meno che la vostra idea non sia quella di fare la legge per poi chiudere entrambi gli occhi affinché non venga applicata. Ma questo sarebbe il contrario della cultura della legalità. (Applausi dal Gruppo PD).

Il Senato non approva.

[…]

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, il ministro Tremonti ci ha detto che intende inserire nella Costituzione repubblicana il principio per cui tutto ciò che non è vietato è consentito. Se noi volessimo trasferire questo principio nella legge che stiamo approvando, dovremmo scrivere al posto di questo emendamento: «fuori dei casi in cui vi sia un motivo grave di limitazione dell’attività di consulenza, l’attività medesima è libera».
Tutt’al contrario, il vostro emendamento dice: «Fuori dai casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge …», al di fuori di questo caso, la consulenza è sempre vietata.
Guardate che per consulenza si intende l’attività oggetto di qualsiasi contratto d’opera intellettuale. Voi state dicendo che, tranne nei casi in cui vi sia un ordine, un albo, un inquadramento preventivo dell’attività intellettuale dell’uomo in questo campo importantissimo, cioè il campo del diritto, che permea di sé tutta la vita associata (gli antichi giureconsulti dicevano ubi societas ibi ius, cioè qualsiasi associazione, società, compagine umana vive di diritto), di questo potrà occuparsi solo l’avvocato iscritto all’albo, cioè un soggetto che esercita la professione in quel modo tradizionale, che avete posto come unico modo possibile.
Avete in mente una società nella quale, sostanzialmente, la cultura viene irreggimentata, viene irrigidita in schemi preconfezionati. È quello che nell’ordinamento corporativo si chiamava «l’inquadramento costitutivo» che è esattamente il contrario di quello che la Costituzione repubblicana ha invece sancito come principio generale di libertà delle attività umane, e in particolare di quelle intellettuali.
A questo proposito – e concludo – Alessandro De Nicola su «Il Sole 24 Ore» di venerdì scorso ha scritto che, in sostanza, gli avvocati stanno mettendosi contro l’intera società civile: «Non so perché gli avvocati e i loro supporter in Parlamento abbiano scelto di mettersi tutti contro ma, come il passato insegna, “molti nemici molto onore” non è un motto particolarmente astuto, né vincente». (Commenti del senatore Benedetti Valentini). Pensateci un momento prima di votare questo emendamento. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Astore e Pistorio).

[…]

3. – SULLA NATURA DEGLI STUDI LEGALI SECONDO IL DIRITTO COMUNITARIO

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, intervengo per segnalare ai colleghi che secondo le norme del diritto comunitario gli studi legali hanno la natura di imprese mentre con la disposizione in esame si afferma il contrario. Invito l’Aula a riflettere su questo passaggio, tenuto conto che non si può contrapporre l’ordinamento nazionale a quello europeo. Se passasse la formulazione qui in esame potrebbe nascere un contrasto che rischia poi di dare luogo a una censura della Corte di giustizia delle Comunità europee.
Certo, nulla vieta che, come è accaduto fin qui, la stessa parola – “impresa” – assuma due significati diversi rispettivamente nel contesto dell’ordinamento europeo e nel contesto dell’ordinamento nazionale italiano; ma un progressivo allineamento dei linguaggi giuridici rientra fra gli obiettivi che l’Unione Europea ci propone.
Ovviamente, qualificare uno studio legale come impresa non comporta necessariamente che in caso di insolvenza esso sia assoggettato al fallimento: nulla vieta di escluderlo e di dettare una disciplina speciale anche per altri aspetti dell’attività economica dello studio. Ma perché non riconoscere che, sia pure con le sue indubitabili peculiarità, anche uno studio legale è o può essere sostanzialmente un’impresa?

[…]

4. – SULL’ATTRIBUZIONE DEL TITOLO DI SPECIALISTA

VALENTINO, relatore. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALENTINO, relatore. Signora Presidente, non si possono condividere queste argomentazioni: trovo veramente impensabile che un soggetto che abbia per vent’anni esercitato la professione di avvocato e che abbia fatto l’amministrativista, il penalista, il tributarista e, quindi, abbia conseguito credito, notorietà ed esperienze, poi si debba sottoporre, in questa fase iniziale, a un’ulteriore verifica. Ma non bastano vent’anni di attività?

D’ALIA (UDC-SVP-Aut:UV-MAIE-IS-MRE). No, non bastano!

VALENTINO, relatore. Non bastano, per lei, illustre collega D’Alia, ma per tanti altri, che hanno svolto la professione con dignità e a tempo pieno, probabilmente vent’anni bastano! (Applausi dal Gruppo PdL).
Ma non è questo il punto. Mentre per gli avvocati che da dieci anni svolgono la professione è necessario sottoporsi all’esame del CNF, cioè alla verifica della sussistenza di quei requisiti che consentano di attribuirsi il titolo di specialista, dopo vent’anni di professione, ormai, o si è tributaristi, amministrativisti, penalisti e quant’altro, oppure non lo si diventerà più; oppure, se lo si vuole diventare, non avendo una specializzazione particolare, un’attitudine, un impegno e un’esperienza particolari nel settore, si seguiranno le indicazioni che la legge ha stabilito.
Quindi, io trovo questa opposizione da respingere e mi auguro vivamente che il collega D’Alia, che stimo moltissimo e che è persona di grande qualità, come avvocato e come politico, voglia riconsiderare la sua opinione. (Applausi del senatore Sarro).

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signora Presidente, obiettivamente – e mi rivolgo al relatore – appare non convincente il fatto che un avvocato che per alcuni lustri abbia esercitato la sua attività in un ramo del diritto debba sottoporsi a tale esame.
Però, proprio perché per vent’anni egli ha esercitato in un ramo del diritto, acquistando e acquisendo notorietà e competenza, cosa deve farsene del titolo di specialista?
Se questi ha davvero bisogno di scrivere sulla sua carta intestata il titolo di specialista, deve essere sottoposto a questa sorta di forche caudine; ma se ha già acquisito sul campo la sua specializzazione, non ha bisogno del titolo.
In questo senso sarei più favorevole all’emendamento 8.239, quello che propone la soppressione dell’automatismo, ossia della seconda parte del comma 10 dell’articolo, che prevede l’automatismo dopo vent’anni. Se si vuole avere il titolo di specialista, ci si sottoponga al confronto con una commissione d’esame; se si è acquisito sul campo il titolo, non c’è necessità di metterlo sulla carta intestata.

[…]

BENEDETTI VALENTINI (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI VALENTINI (PdL). Signora Presidente, onorevoli colleghi, di questa norma, a mio avviso, non si deve fare una bandiera particolarmente solenne. Stiamo dimenticando, onorevoli colleghi, che questa è una norma transitoria.
Non è che a regime stiamo prevedendo un privilegio per chi è più anziano. È una norma transitoria, che reca l’espressione «alla data di entrata in vigore della presente legge» e poi tutto quel che segue: dunque è una norma transitoria. È capitato mille volte, quando si è andati a disciplinare ex novo una professione o un’attività. Per fare il restauratore, ad esempio, si stabilisce che si deve essere iscritti ad un albo dopo aver superato un esame; però si stabilisce anche che coloro che alla data di entrata in vigore della legge abbiano svolto per trent’anni l’attività di restauratore siano iscritti all’albo che li abilita a svolgere la professione.
È il buonsenso che lo dice. Si tratta di una norma transitoria; stiamo parlando di venti anni, onorevoli colleghi. Oggigiorno un giovane professionista entra nell’albo a trent’anni, dopo aver conseguito la laurea – che oggi si tarda molto a conseguire – ed aver superato il periodo di tirocinio. A chi ha cinquant’anni e passa, una norma transitoria concede la facoltà non di essere abilitato in esclusiva ad esercitare quel ramo di professione, ma esclusivamente a denominarsi specialista esperto in quella particolare materia. Non è che chi non è specialista non può esercitare la professione in quella branca: non è un’esclusività.
Se noi consideriamo questi due elementi (la non esclusività dell’esercizio in quella branca e il fatto che si tratta di una norma transitoria), vedrete che tutto questo scontrarsi, se non è proprio pregiudiziale, è un voler scontrarsi su un principio che non è un principio con la «P» maiuscola; quindi diventa pretestuoso. A meno che il relatore non voglia svolgere ulteriori approfondimenti, chiedendo di accantonare l’emendamento. Ma non credo che ne valga la pena. Secondo me, come norma transitoria, il comma 10 dell’articolo 8 è corretto: è stato studiato apposta. Si stabilisce che chi ha esercitato per dieci anni deve superare il filtro di un esame; chi ha esercitato per vent’anni o più, in base a questo regime transitorio, non deve superare il filtro di un esame. A me sembra ragionevolissimo: è un criterio di gradualità del tutto conforme alla tutela del cliente e alla transitorietà della norma. Se si vuole approfondire, si approfondisca; ma è pretestuoso, è inutile, è superfluo. La norma è corretta, e non c’è un conflitto tra generazioni, nella maniera più assoluta. (Applausi del senatore Valentino).

[…]

5. – SULL’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’articolo 10.

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, siamo tanti avvocati in quest’Aula…

VOCI DAI BANCHI DELLA MAGGIORANZA. Troppi! Troppi! Troppi!

ICHINO (PD). Mi correggo, secondo alcuni ci sono troppi avvocati in quest’Aula. (Applausi dai Gruppi PdL e LNP e del senatore De Angelis). Ma proprio perché siamo così tanti possiamo confrontare le nostre esperienze personali e chiederci per un momento – anche sulla base di quello che i colleghi ci dicono e ci scrivono in questi giorni con un flusso di messaggi pressoché unanime sulla questione – quanta parte dei corsi di cosiddetto aggiornamento professionale è davvero utile per la nostra attività e quanta parte, invece, è pura perdita di tempo.
Credo che se ciascuno degli avvocati qui presenti dentro di sé fa questa valutazione, dovrà onestamente riconoscere che quella piccola parte dei corsi di aggiornamento che veramente serve è quella che tutti gli avvocati seri farebbero senza bisogno di alcun obbligo o prescrizione. Inoltre, non è una norma come questa che garantisce la frequenza dei corsi veramente necessari.
Se le cose stanno così, e se è vero che questa norma è stata originariamente inserita in questo progetto di legge in funzione di filtro, di riduzione dei titolari del diritto all’iscrizione all’albo, per sfrondare il numero degli iscritti, chiediamoci se davvero è utile tutto questo o se non sia invece un laccio, una corvée, un peso che imponiamo agli avvocati italiani e che riduce ulteriormente la loro competitività rispetto ai loro colleghi stranieri.
Onorevoli colleghi, se c’è un vantaggio nell’essere un Paese un po’ più arretrato degli altri, è solo quello di potersi confrontare con i Paesi nei quali le cose funzionano meglio e recepire il meglio della loro esperienza. Chiediamoci allora se negli altri Paesi del Nord e del Centro Europa c’è una norma di questo genere. Il relatore e il Governo sanno indicare un solo Paese dove una norma del genere venga imposta agli avvocati, dove si impone un certo numero di ore di frequenza a corsi di aggiornamento? Se siete in grado di citarne uno solo, benissimo, ma se non siete in grado di portare esempi di questo genere nel panorama internazionale, in particolare in quello dei Paesi più civili e avanzati, non è forse il caso di ripensare questa norma che oltretutto – guarda caso – pone questo onere irragionevole interamente a carico dei più giovani? Infatti, passati dieci anni, passato il termine per la specializzazione, tutti sono esentati da quell’onere. Ancora una volta, quindi, chi lo deve sopportare sono i giovani, chi è appena entrato nella libera professione. Ancora una volta quella che stiamo varando è una norma contro i giovani avvocati. (Applausi dal Gruppo PD).

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signora Presidente, intervengo brevemente per svolgere alcune considerazioni. Indubbiamente il problema della formazione continua era avvertito. È vero che in nessun altro Paese europeo esiste una previsione del genere, ma è altresì vero che in nessun altro Paese europeo esiste una produzione legislativa come in Italia.
In Italia le leggi cambiano quasi ogni giorno e poiché la produzione legislativa è eccessiva e continua ad evolversi in maniera anche caotica… (Applausi della senatrice Carlino e del senatore Peterlini) …la formazione dell’avvocato è necessaria.
La si deve prevedere e disciplinare o lasciare esclusivamente alla buona volontà? Noi riteniamo che, in nome della tutela dei cittadini, una qualsiasi forma di disciplina e di regolamentazione debba esserci. Se poi la formazione rappresenterà una beffa, oppure una finzione, questa è altra cosa.
Noi speriamo che non sia così; ci auguriamo che non lo sia. Lo spirito che ci anima vorrebbe non fosse così. Se poi si farà «all’italiana», allora sarà tutto un fallimento.
Mi piacerebbe però se ogni tanto facessimo gli europei anche in quest’Aula. (Applausi dei senatori Carlino, Benedetti Valentini e Valentino).

[…]

LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO (PdL). Signora Presidente, signore e signori del Senato, se da qualche scranno venisse meno demagogia forse risulteremmo più credibili.
I giovani da sempre devono sacrificarsi di più perché, essendo ignoranti (in quanto giovani), devono studiare di più: studiano alle scuole elementari, studiano alle scuole medie, si affaticano alle scuole superiori e si devastano di fatica nelle università; poi, nel mondo del lavoro devono farsi strada.
I giovani devono studiare, devono applicarsi per tentare di supplire a qualcosa che non possiamo fare per legge. Il peso dell’esperienza che accumula ciascun avvocato nel corso degli anni è forte, come forte ne è il peso nel caso del grande magistrato che è già in Corte di cassazione il quale, ovviamente, ne sa di più del giovane che ha appena superato il concorso per l’accesso in magistratura.
È inutile continuare a contrapporre giovani ed anziani dicendo che facciamo una legge per favorire le posizioni già acquisite. Ciò non deve essere assolutamente fatto, né tanto meno ripetuto. (Applausi dei senatori Sarro e Valentino).

GARAVAGLIA Massimo (LNP). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GARAVAGLIA Massimo (LNP). Signora Presidente, intervengo semplicemente perché tutta questa discussione sulla formazione degli avvocati mi sembra piuttosto paradossale.
Nel momento in cui ci si confronta con il mercato, non c’è bisogno di una legge che obblighi alla formazione… (Applausi della senatrice Mariapia Garavaglia e del senatore Ichino)… perché, nel caso non ci si aggiornasse, si rimarrebbe senza clienti. Tutto il ragionamento al riguardo è paradossale e lo stiamo affrontando per parti disgiunte, prima con la questione dei 10-15 anni, ora con la formazione. Ma, alla fine, una decisione va presa.
Se la professione è una professione privata e, dunque, si confronta con il mercato, sarà lo stesso mercato a decidere le tariffe, a valutare la formazione o quant’altro. Viceversa, il problema lo abbiamo nel settore pubblico.
Ad esempio, se un magistrato, una volta partecipato ad un concorso, da lì in poi non sostiene più esami, né partecipa a corsi di formazione, è un problema. Pertanto, dovremmo porci il problema della formazione, dell’aggiornamento e degli esami là dove non c’è un mercato che pensa a giudicare se si è bravi o meno; viceversa, dove interviene il mercato è assolutamente inutile e paradossale discuterne, perché sarà proprio il mercato a decidere chi è bravo e chi non lo è. (Applausi dai Gruppi LNP e PdL).

[…]

6. – SULLA NATURA DEL RAPPORTO DI LAVORO DEGLI AVVOCATI COLLABORATORI DI STUDIO

PRESIDENTE. L’emendamento 13.204 (testo 2) è stato ritirato. Passiamo alla votazione dell’emendamento 13.205, identico all’emendamento 13.206.

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, la Sottosegretaria Casellati mi ha gentilmente fornito questa mattina i dati sulla consistenza del partito degli avvocati in Senato: 44 senatori, più del 13 per cento di quest’Assemblea. Siamo sostanzialmente il terzo partito, con una netta sovrarappresentazione degli avvocati in quel match “avvocati contro resto del mondo” di cui parla Alessandro De Nicola su «Il Sole 24 ore» di venerdì, ma anche con una sovrarappresentazione netta di una componente in seno alla categoria degli avvocati: siamo tutti avvocati seniores, titolari di studio, mentre non mi risulta che siano qui rappresentati i professionisti più giovani, i collaboratori, in particolare coloro che, senza essere “titolari”, lavorano a tempo indeterminato e continuativo per un unico studio.
Questi avvocati collaboratori di studio, in Italia, secondo l’Associazione Nazionale Forense, sono circa 50.000; dato confermato, anzi aumentato, dalla Cassa di previdenza degli avvocati. Sono avvocati sostanzialmente a stipendio. In questa legge, che è stata scritta da titolari di studio seniores, coll’imporre la forma del rapporto di lavoro autonomo, si toglie a questi 50.000 avvocati dipendenti l’autonomia sostanziale. Questi collaboratori possono essere licenziati da un giorno all’altro, senza un minimo di preavviso e anche per il motivo più futile. L’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato per loro non esistono. Si finge che siano autonomi, in realtà dipendono a tutti gli effetti dal loro dominus, dal titolare dello studio. Se si ammalano, gli studi seri continuano a retribuirli, mentre gli studi meno seri li lasciano senza una lira di sostegno del reddito. Parlo ovviamente delle malattie consistenti, di quelle che possono comportare l’interruzione del lavoro per mesi e quindi incidere notevolmente sulla loro condizione.
Concludo osservando che il comma che proponiamo di sopprimere, in sostanza, ha la pretesa, che la Corte costituzionale ha più volte dichiarato inammissibile, di facere de albo nigrum; ovvero intende stabilire che il rapporto di collaborazione dell’avvocato non può essere qualificato come rapporto di lavoro dipendente anche se lo è in rerum natura. Sta di fatto che i Consigli dell’ordine, applicando una norma come questa, non hanno mai cancellato dall’albo i 50.000 dipendenti a tempo indeterminato in condizione di monocommittenza e di sostanziale dipendenza. La realtà è che noi mettiamo a priori l’etichetta dell’autonomia su un rapporto che di autonomia può non avere niente.
Quello che abbiamo cercato di proporre in Commissione, senza che ci sia stata data una sola parola di risposta, non è stato certo di trasferire su questo rapporto l’intero diritto del lavoro subordinato: sappiamo che questo non avrebbe senso. Occorre però riconoscere la necessità di un minimo di disciplina del rapporto, nella sola misura in cui questo è opportuno, proprio per garantire quella autonomia e quell’indipendenza sostanziale che voi dite di voler garantire a tutti gli avvocati, ma che in questo caso di fatto negate in radice. Lo si può fare riconoscendo la particolarità di questo rapporto di dipendenza e provvedendo di conseguenza con una normativa speciale, disegnata in funzione di questo rapporto particolare. È esattamente la stessa cosa che è stata fatta nel 1981 per i calciatori e gli atleti professionisti, cui si è riconosciuto, a determinate condizioni, il carattere di lavoratori dipendenti, dettando però una disciplina adatta alle caratteristiche peculiari del rapporto.
So bene quello che temono i titolari degli studi: temono che, qualificato il rapporto come dipendente, finiscano coll’introdursi nel rapporto stesso tutte le rigidità proprie in generale del rapporto di lavoro subordinato. Sono convinto anch’io che questo sarebbe sbagliato; così come sono convinto che occorrerebbe incominciare a ridurre quelle rigidità anche nella disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato. Ma dobbiamo incominciare a uscire da questa dicotomia drastica, per cui o il dipendente è iperprotetto oppure è totalmente privo di protezione. Questa dei dipendenti degli studi legali potrebbe essere un’occasione interessante per sperimentare una disciplina del rapporto di lavoro dipendente ridotta all’essenziale: un preavviso di recesso commisurato all’anzianità di servizio, una protezione ben calibrata per il caso di malattia di lunga durata, almeno un principio di retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro, che inciderà poco sul piano pratico ma almeno alimenterà qualche rimorso nelle coscienze meno incallite dei titolari di studio.
Non volete imboccare questa strada? Allora lasciate tutto come sta, con un ordinamento che non corrisponde alla realtà dei rapporti. Questo comma, così come è scritto, se applicato correttamente, comporterebbe la cancellazione dall’albo di 50.000 nostri collaboratori, che oggi lavorano in condizione di sostanziale subordinazione, anche se negata dalla legge. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

7. – SULLA NOMINA DEI DIFENSORI D’UFFICIO

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signor Presidente, abbiamo discusso a lungo in Commissione e si era evidenziata la necessità di un aggiustamento tecnico. Così come è formulata, infatti, la norma significa che difensori d’ufficio in questi processi possono essere nominati esclusivamente coloro che siano iscritti all’albo da non più di sei anni: quindi, da sei anni e un giorno non si può assumere la difesa. Il comma che precede stabilisce che per essere iscritti nell’albo bisogna avere però un altro titolo, quello di cinque anni precedenti l’iscrizione senza avere riportato sanzioni disciplinari.
Il combinato di questa disciplina comporta che esclusivamente gli iscritti dal quinto al sesto anno possono assumere la difesa: i primi cinque anni rappresentano una condizione di iscrizione, perché per cinque anni non bisogna avere riportato sanzioni disciplinari; possono essere nominati quelli che hanno una iscrizione inferiore a sei anni; sei anni meno cinque fa un anno. Con questa formulazione si determinerebbe una specie di riserva indiana per cui solo gli avvocati iscritti dal quinto al sesto anno potrebbero assumere le difese così come previste nell’emendamento.
Lo spirito dell’emendamento è saggio e positivo ma dovrebbe essere sottoposto ad un minimo di correzione tecnica, perché così com’è creerebbe veramente grande confusione. Altro che migliaia di giovani avviati alle difese d’ufficio: sarebbe uno spicchio di tempo limitato ad un anno, per cui coloro che sono iscritti all’albo da cinque anni e un giorno non potrebbero essere nominati, come anche coloro che vi sono iscritti da sei anni e un giorno. Questo emendamento non va incontro ai giovani, perché stabilire un limite di cinque anni meno un giorno vuol dire non andare incontro ai giovani: così è scritto.
Avevo sollecitato un intervento correttivo, cogliendo lo spirito di tale proposta. In ogni modo, se si dovesse votare, sperando poi che nell’altro ramo del Parlamento si possa modificare, il nostro voto sarà favorevole, cogliendo ciò che vuol significare questo emendamento ma non perché confezionato tecnicamente bene. (Applausi del senatore Pedica).

LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO (PdL). Signor Presidente, signore e signori del Senato, vorrei ricordare al senatore Legnini, e anche al senatore Li Gotti, la sentenza della Corte costituzionale n. 106 del 2010. Si è parlato qui diffusamente dell’apertura che si doveva dare ai giovani più deboli, ma evidentemente questo argomento non è stato ritenuto sufficiente dalla Corte costituzionale, che ha stabilito che i praticanti avvocati abilitati – dopo un anno sappiamo che possono essere abilitati – non possono essere difensori d’ufficio; possono invece essere difensori di fiducia.
L’argomento, un po’ brutale nella sua sintesi (con il massimo rispetto per la Corte costituzionale), sul punto è stato il seguente: “né può costituire argomento contrario la possibilità, per il praticante avvocato, di essere nominato difensore di fiducia: un conto è che tali limiti di competenza professionale e di capacità processuale siano liberamente accettati dall’imputato, altro è che essi siano imposti in sede di nomina del difensore d’ufficio”. In altri termini, con questa sentenza, diffusamente, si è data grande forza alla difesa d’ufficio ma si è contemporaneamente detto che questa deve essere attuata soltanto da professionisti di pieno diritto, cioè non dai praticanti avvocati che hanno il patrocinio.
La logica dell’articolo 15 è in questa linea: a regime, la difesa d’ufficio dovrà essere attuata semplicemente e solo dagli avvocati specialisti in diritto penale; possiamo allora creare una norma di carattere transitorio (e si potrebbe capire che nel periodo transitorio si possa avere un disciplina diversa e, essendo una norma transitoria, sappiamo che la Corte costituzionale è meno severa nel giudizio di costituzionalità), ma comunque l’emendamento 15.205, per ragioni diverse da quelle che ha ricordato il senatore Li Gotti, non è comprensibile, perché dopo le parole «possono essere nominati difensori d’ufficio» e prima delle parole «gli avvocati iscritti nell’albo da non più di sei anni» andrebbe comunque inserita la parola “anche” per poter sostenere tale modifica.
Per tale ragione, voterò contro l’emendamento 15.205.

[…]

LI GOTTI (IdV). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI GOTTI (IdV). Signor Presidente, l’emendamento 16.206 (testo 2) ha una sua specificità. Il fatto che nel corpo dell’articolo proposto sia previsto «essere comunque di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense» introduce, come già è stato detto in Commissione, un giudizio di attualità: essere di condotta irreprensibile. L’emendamento invece prende in considerazione coloro che abbiano riportato condanne definitive per mafia: sono due cose diverse. L’attualità della condotta irreprensibile non è un mantello largo che copra tutto: si tratta di fattispecie e di previsioni diverse.
Noi riteniamo che colui che abbia riportato una condanna definitiva per reati di mafia non abbia titolo per l’iscrizione in un albo dal quale discende anche come conseguenza la possibilità di iscrizione nell’elenco dei difensori d’ufficio, ossia l’osservanza ed obbligo della prestazione di un ufficio reso nell’interesse della giustizia. Riteniamo che tra i requisiti richiesti per coloro che possono anche iscriversi nell’albo dei difensori d’ufficio, e quindi nell’elenco dell’albo degli avvocati, debba anche farsi riferimento alle condotte di vita pregresse: non alle condotte generiche, ma a quelle caratterizzate da comportamenti criminosi e sanzionati. Si sta parlando di reati estremamente gravi, di cui all’articolo 51 del codice di procedura penale, e dunque di associazione mafiosa ma anche di associazione terroristica. Di queste fattispecie si sta parlando.
Non credo si debba avere timore di inserire in un nuovo ordinamento professionale la specificazione in base alla quale chiunque vuole fare l’avvocato deve avere certi requisiti, fra i quali il non aver commesso i reati di cui sopra. Penso sia il minimo che un Paese aggredito dalla criminalità organizzata possa chiedere. (Applausi dai Gruppi IdV e PD).

[…]

LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO (PdL). Signor Presidente, sarò molto breve, perché quello che ora si ripropone, anche con l’intervento del senatore Casson, è una sorta di condanna perenne di colui che ha subito una sentenza di condanna. Siamo di fronte al solito vecchio problema, che si trascina da molti decenni: se la pena abbia un effetto retributivo o di prevenzione speciale. Se qualcuno è condannato e poi ovviamente, per il tipo di condanna, è escluso dai pubblici uffici perché interdetto a vita, è un discorso. Ma quando un soggetto ha pagato il suo debito – come si dice in forma corrente – o ha avuto addirittura la riabilitazione, siamo in presenza di un cittadino che, dopo aver espiato la pena ed aver ottenuto eventualmente anche la riabilitazione, in quel momento è un cittadino di pieno diritto.
O forse vogliamo ancora continuare a sostenere, com’è stato fatto per molti decenni, che uno che ha subito una sentenza di condanna, come tale debba essere sempre considerato pericoloso per la società? Non credo proprio. (Applausi dal Gruppo PdL).

[…]

8. – SULLA INCOMPATIBILITÀ DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO CON QUALSIASI ATTIVITÀ DIVERSA DI LAVORO SUBORDINATO ANCHE SE CON ORARIO DI LAVORO LIMITATO

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà. In via eccezionale, le concedo un minuto di tempo.

ICHINO (PD). Signor Presidente, ricordo che la legge comunitaria del 2008 ha aggiunto nella legge n. 11 del 2005 l’articolo 14-bis, che stabilisce: «Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale».
Ora, se noi introduciamo questa incompatibilità prevista nel testo del disegno di legge, considerato che questa incompatibilità non sussiste per molti ordinamenti stranieri, per esempio per gli avvocati francesi, inglesi o spagnoli – i quali ben possono venire a esercitare la professione in Italia secondo il loro ordinamento -, ne deriva un handicap negativo, una discriminazione al contrario che noi infliggiamo agli avvocati italiani. Essendo la legge comunitaria una norma di rango ordinario, noi possiamo anche contraddirla con una legge successiva dello stesso rango; però dobbiamo sapere che questo stiamo facendo; e che comporta una questione di compatibilità della nostra legge nazionale con l’ordinamento europeo. Stiamo introducendo una discriminazione al contrario ai danni degli avvocati italiani. (Applausi del senatore Morando).

[…]

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, vorrei cogliere l’occasione della dichiarazione di voto sull’emendamento 23.700 per informare i colleghi che davanti al Senato è in corso una manifestazione di avvocati, con tanto di toga, che distribuiscono un volantino intitolato: «No alla controriforma forense». Forse vale la pena leggere molto rapidamente due cose che scrive il presidente dell’Unione giovani avvocati italiani sul quotidiano «Europa» del 27 ottobre scorso: «La verità è che molti avvocati non hanno alcuna tutela negli studi di cui sono dipendenti a mille euro al mese. Costoro saranno vessati oltre che da un novello dirigismo anche dalla “continuità professionale”, norma pacificamente incostituzionale, laddove stabilisce che un tuo collega e concorrente decida di privarti dell’iscrizione all’albo e del lavoro sulla base di un giudizio discrezionale».
Questo teniamolo presente, quando fra pochi minuti affronteremo la questione delle competenze dei consigli dell’ordine. L’articolo continua: «Anche qualora si ritenesse giusto che a dettare un provvedimento al Parlamento fosse una corporazione, non sarebbe accettabile una riforma che rechi solo danni ai cittadini e alle imprese»; io aggiungo «anche a un intero segmento generazionale del ceto forense». Poi prosegue: «Su chi pensate siano scaricati i costi che dovranno essere sostenuti in termini di tempo e di esborsi per conseguire la formazione professionale e le specializzazioni? Che parcella farà l’avvocato cassazionista nel momento in cui potrà dirsi uno tra i pochi abilitati?».
Queste domande dobbiamo porcele perché se le pone il Paese; e dobbiamo anche darvi una risposta. Non possiamo lasciare senza risposta queste domande. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

9. – SUL POTERE ESCLUSIVO DI RAPPRESENTANZA DELL’AVVOCATURA E SULLA NORMA ASSURDA CHE REGOLA LA DISLOCAZIONE DELLA SEDE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE

ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, il modello di organizzazione professionale in cui la rappresentanza di una categoria è riservata in via esclusiva a un ente pubblico è quello proprio dell’ordinamento corporativo, che è stato abrogato con un decreto luogotenenziale del 1944 (Applausi dal Gruppo PD).
È già sbagliato quello che risulterebbe nonostante l’ipotetico accoglimento dell’emendamento 24.200/1, cioè stabilire che l’ordine ha «la rappresentanza dell’avvocatura»: semmai, l’ordine dovrebbe rappresentare l’interesse dell’amministrazione della giustizia e della collettività a un corretto esercizio delle funzioni dell’avvocatura. Questo, evidentemente, è molto diverso dalla rappresentanza degli interessi economici e professionali dell’avvocatura.
Comunque, almeno eliminiamo l’inciso «in via esclusiva», perché esso implica che nessun altro (nessun sindacato forense, nessuna associazione di avvocati) può rappresentare l’avvocatura. Quello che state ricostituendo è il sindacato unico di memoria fascista. Non mi sembra decente riproporlo a 76 anni di distanza dalla precedente legge forense. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Questo emendamento mira a introdurre nella legge un comma secondo il quale, in relazione alle effettive esigenze gestionali ed organizzative del Consiglio dell’ordine, «sono ad esso destinati i medesimi locali e spazi utilizzati dallo stesso Consiglio alla data di entrata in vigore della presente legge» nell’edificio della Suprema Corte di cassazione.

INCOSTANTE (PD). È ridicolo.

ICHINO (PD). Proporrei al relatore di aggiungere l’indirizzo col numero civico e magari anche il numero di telefono. (Applausi del senatore Morando). Nel momento in cui il ministro Calderoli si arrabatta per eliminare le leggi inutili o pleonastiche, qui stiamo introducendo una norma veramente insensata; e probabilmente addirittura dannosa per lo stesso Consiglio dell’ordine che incautamente la chiede. Se per caso domani ci fosse l’opportunità di chiudere quei locali e aprirne degli altri a un piano diverso non lo si potrà fare perché devono essere i medesimi locali e spazi occupati oggi! Questo è il contrario della delegificazione. Questo è il contrario del Decalogue for Smart Regulation che l’Unione europea ci indica come guideline per la buona legislazione. È l’ipertrofia normativa, la norma intrusiva che va a disciplinare non una materia di competenza della legge, e neanche quella propria di regolamento ministeriale, ma addirittura quella attinente a scelte operative di competenza di un capo-ufficio, legate a opportunità che cambiano di giorno in giorno. (Applausi del senatore Nerozzi).
Vi rendete conto dell’assurdità di inserire in una legge dello Stato, e una legge di questa importanza, una disposizione che andrebbe riservata a un dirigente locale, neanche al Consiglio dell’ordine nazionale? Credo che siamo ancora in tempo per evitare questa mostruosità. Vediamo di prenderci i pochi minuti necessari per ripensarci. (Applausi dal Gruppo PD).

[…]

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’articolo 24, nel testo emendato.

ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, il voto negativo che esprimeremo su questo articolo è motivato non solo dalla stortura, dalla vera e propria rottura rispetto all’ordinamento costituzionale della libertà sindacale, della libertà delle rappresentanze professionali, che è contenuta nel primo comma dell’articolo; ma anche dal comma 2-bis che avete voluto a tutti i costi inserire nel testo legislativo.
In proposito, vi invito ad un’ultima riflessione. Una norma che prevede che agli uffici di un ente, sia pure ente pubblico, sono destinati i medesimi locali e spazi utilizzati da quell’ente alla data di entrata in vigore della legge, e questo in presenza di una sentenza di sfratto, non è una norma di legge, se è vero che nel nostro ordinamento costituzionale la legge deve avere carattere generale e astratto e non riferirsi a casi specifici. (Applausi del senatore D’Ambrosio).
Se questo è vero, e se è vero che c’è una sentenza della magistratura che dispone il contrario, questo non è un provvedimento di legge, è un provvedimento di carattere sostanzialmente giudiziario, contrario a quello adottato dai magistrati. Se così è, qui c’è un vero e proprio conflitto di attribuzione. Stiamo esercitando un potere giudiziario per disporre in senso contrario a quello che è stato disposto dalla magistratura in questo caso specifico. Ma noi non abbiamo, per ordinamento costituzionale e civile, questo potere.
Vi invito a riflettere per un attimo sulla questione perché – ripeto – questa è una mostruosità e lo è molto di più di quanto lo sia la norma precedente che ha citato poco fa il collega Li Gotti: perché in quel caso non c’era, come c’è ora, una sentenza che stabilisse che quei locali devono essere liberati. Se era sbagliata quella norma questa lo è molto di più per questa particolarità, per il provvedimento giudiziario che è stato adottato sul punto.
Aggiungo, infine, e mi rivolgo al presidente della Commissione bilancio, senatore Azzollini, che qui c’è un onere aggiuntivo per lo Stato, perché si impone all’amministrazione della giustizia un costo aggiuntivo che quella sentenza aveva eliminato; quantomeno, si ricostituisce un rapporto che comporta un onere per l’amministrazione pubblica; e non è indicata la relativa copertura.
Comunque, il nostro voto su questo articolo, ovviamente, sarà contrario. Ne chiediamo la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico. (Applausi dal Gruppo PD).

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