FINANZIARIA: OCCORREREBBE PIÙ SENSO DI RESPONSABILITÀ VERSO LE NUOVE GENERAZIONI

La buona politica dovrebbe contrastare il populismo di chi si propone soltanto di aumentare la spesa corrente – Sul terreno della riduzione del debito pubblico, poi, il nostro esecutivo dovrebbe essere molto più coraggioso

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Intervista a cura di Matteo Rigamonti pubblicata su Tempi  il 2 novembre 2023 – In argomento v. anche Le tre grandi sfide per il sindacato confederale

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Meno populismo e più responsabilità verso le nuove generazioni. È la sintesi del commento che a Tempi fa il professor Pietro Ichino, esperto di lavoro e welfare, sullo spauracchio dello sciopero generale minacciato Cgil e Uil mentre la legge di bilancio è in discussione in aula. Un gesto che andrebbe nella direzione opposta a quella in cui, invece, occorre andare: cioè verso l’avvio di una progressiva riduzione del debito pubblico. Aspetto, quello dell’impellente necessità di contrastare la crescita del debito, relativamente al quale Ichino reputa sì «prudente» ma comunque «minimalista» e «poco ambiziosa» la manovra. Mentre, a suo avviso, dovrebbe essere una priorità della «buona politica», insieme alla volontà di investire di più e in modo più efficace nel mercato del lavoro, «politiche attive» in particolare.

Qual è il suo giudizio complessivo sulla manovra, anche alla luce della situazione economico-occupazionale del Paese, con il grosso tema della sostenibilità del debito pubblico sullo sfondo?
È una manovra “minimalista”, come era inevitabile che fosse dal momento che la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia hanno deciso, assennatamente, di lanciare ai mercati finanziari e a Bruxelles un messaggio rassicurante, compiendo una scelta connotata essenzialmente dalla prudenza e dalla moderazione. Resta il fatto che, con il tasso di interesse che oggi grava sul nostro debito pubblico, doppio rispetto a quello tedesco, la spesa annua dello Stato per soli interessi si avvia a superare i 100 miliardi l’anno: una enormità inaccettabile. A questa manovra, pur prudente, manca l’ambizione di incominciare a ridurre questa cappa di piombo soffocante.

Come si potrebbe incominciare a ridurla?
Facendo questo discorso agli italiani: “Possiamo ridurre di almeno un quarto già dall’anno prossimo i 100 miliardi che oggi spendiamo per i soli interessi sul debito pubblico, se facciamo toccare con mano a chi acquista i buoni del Tesoro la capacità dell’Italia di incominciare subito a ridurre il debito e il suo impegno serio a farlo per davvero negli anni prossimi. Rinunciamo dunque ai 24 miliardi di spesa in deficit previsti nella manovra: questo ci frutterà già l’anno prossimo almeno altrettanti miliardi di minor spesa per gli interessi. E ci consentirà così di incominciare a ridurre il debito dello stesso importo già nel corso del 2024, con un risparmio ulteriore sugli interessi, che potremo reinvestire subito nella crescita del Paese. E poi, subito, una drastica riduzione della circolazione del contante, accompagnata dalla promozione attiva, con ogni mezzo, dei  pagamenti digitali: una campagna come questa condotta con decisione basterebbe per dimezzare, se non di più,  l’evasione fiscale.

Una ricetta ptliticamente forse un po’ utopica?
Non utopica: possibile. La buona politica è, appunto, l’arte del possibile. D’altra parte, quello che è davvero impossibile, o quanto meno irragionevole, è rassegnarsi a buttare al vento 100 miliardi l’anno, con la prospettiva di doverne buttare ancora di più perché il debito pubblico aumenterà ancora. Abbiamo il dovere verso i nostri figli e nipoti di interrompere il circolo vizioso in cui ci siamo cacciati, trasformarlo in un circolo virtuoso. Non è una scelta politica di destra né di sinistra: è semplicemente la scelta obbligata per chiunque sia consapevole delle proprie responsabilità nei confronti delle nuove generazioni. Il compito della buona politica è dare al Paese questa consapevolezza e guidarlo nel trarne fino in fondo le conseguenze.

Non sembra un programma molto gradito al movimento sindacale. Alcuni sindacati, Cgil in testa, ipotizzano addirittura uno sciopero generale contro questa legge finanziaria, che pure è molto meno incisiva di quello che lei propone.
Nel 2011-12 neanche la Cgil si azzardò a ipotizzare uno sciopero generale contro la manovra attuata dal governo Monti, che pure era molto più “lacrime e sangue” di quella che basterebbe oggi per invertire il circolo vizioso. Allora a impedirlo era lo spauracchio del default dello Stato: lo spread era quasi tre volte quello attuale. La buona politica, oggi, dovrebbe consistere nel contrastare il populismo di chi pensa allo sciopero generale per aumentare la spesa corrente, e nel far prevalere invece il senso di responsabilità verso le nuove generazioni. La maggior parte del movimento sindacale apprezzerebbe un governo che avesse il coraggio e la capacità di far propria questa politica.

Giovani e famiglie spesso vivono le proprie aspettative sul lavoro e sull’equilibrio tra vita e lavoro in modo frustrante, in una società che se, da un lato, gode ancora di un certo benessere diffuso, dall’altro, si impoverisce sempre più. Che risposta deve loro la “buona politica” di cui parla?
Oggi assistiamo a un paradosso che dovrebbe farci riflettere: da un lato, metà circa della forza-lavoro italiana è condannata a una bassa produttività e conseguentemente a precarietà e redditi bassi, con un tasso di disoccupazione generale ancora sopra il 7 per cento e quello di disoccupazione giovanile sopra il 20; dall’altro, le imprese stentano a trovare la manodopera qualificata che cercano ormai in quasi un caso su due (mi riferisco ai dati dell’indagine permanente di Unioncamere e Anpal). Siamo dunque di fronte a una grave disfunzione del mercato del lavoro, dovuta a un difetto strutturale dei servizi di cui il mercato stesso è dotato.

Come se ne esce?
Certo non da un giorno all’altro: occorre un programma di lunga lena, finalizzato innanzitutto a innervare il nostro mercato del lavoro di un servizio efficiente e capillare di orientamento, che dovrebbe raggiungere ogni adolescente all’uscita di ciascun ciclo scolastico, tracciarne il profilo delle attitudini e delle aspirazioni e indicare alla sua famiglia i percorsi formativi più promettenti; inoltre di un servizio di formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, in gran parte organizzata di concerto con le imprese che cercano manodopera e non la trovano, rilevando il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi: che è l’indice migliore della qualità del servizio; infine di servizi efficienti di informazione sulle opportunità lavorative effettivamente esistenti e assistenza alla mobilità geografica e professionale delle persone.

Queste di cui lei parla sono le cosiddette politiche attive del lavoro. Ma non si dovrebbero riformare anche quelle passive, quelle di sostegno del reddito di chi perde il lavoro?
È proprio così: occorre cambiare profondamente la nostra cultura del lavoro diffusa, e la politica del lavoro perseguita dai governi, convincendo l’opinione pubblica che per aumentare la produttività del lavoro è indispensabile favorire, assistere e sostenere la transizione delle persone dalle imprese inutili tenute in piedi ai margini della pubblica amministrazione (le “partecipate” degli enti pubblici) e dalle imprese marginali, o addirittura decotte, verso le imprese più sane che cercano e non trovano il personale qualificato di cui hanno bisogno. Per questo occorre un incisivo riequilibrio tra politiche passive del lavoro, per le quali spendiamo oggi più di 30 miliardi l’anno, e politiche attive, per le quali – se si esclude una formazione professionale di cui nessuno controlla l’efficacia – spendiamo dieci volte di meno.

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