SUL PROGETTO PER LA TRANSIZIONE ALLA FLEXSECURITY

ALCUNE DELLE NUMEROSISSIME LETTERE, CON LE RELATIVE RISPOSTE

Sono qui riportate soltanto alcune delle numerosissime lettere pervenute negli ultimi due mesi su questo tema e delle relative risposte. Le principali domande e risposte sono riordinate e sintetizzate nel documento F.A.Q. sul progetto per la transizione alla flexsecurity. Per i link alla bozza di disegno di legge e a tutti gli altri documenti concernenti il progetto, disponibili nel sito, vai al Portale della Flexsecurity.
 

PERCHE’ TUTTE QUESTE RESTRIZIONI SUI CONTRATTI A TERMINE?

Lettera pervenuta il 18 febbraio 2009

Egregio Professore, la ringrazio dell’apprezzamento e approfitto della sua disponibilità per inviarle alcune mie brevi considerazioni circa il disegno di legge.
Ferma restando la sicura validità del progetto, mi permetto di non condividere quanto sostenuto circa le necessarie modifiche delle norme che regolano il contratto a tempo determinato. Capisco che l’intenzione di limitarne l’utilizzo  abbia la finalità di evitarne gli abusi, ma questo andrebbe ottenuto con una più attenta attività ispettiva e non con la preclusione di strumenti contrattuali leciti. Se valutiamo il contesto europeo, l’Italia non è il paese che utilizza maggiormente il contratto a termine (o la somministrazione) e pertanto non è certo questa la “precarizzazione” del lavoro, piuttosto il lavoro nero. Va considerato che spesso gli abusi del contratto a termine rispondono alla  necessità di allungare la prova e di eludere l’articolo 18, che però con il suo progetto verrebbe depotenziato e pertanto il problema sarebbe conseguentemente risolto.
Non posso invece dimenticare che il contesto economico  in cui operiamo è piuttosto instabile , con una domanda del mercato che varia notevolmente nel breve periodo. Ciò non permette alle aziende (soprattutto alle piccole e alle medie) di condurre piani a medio termine. Di conseguenza la pianificazione delle risorse è ridotta alle commesse e ai contratti correnti. Condurre attività economiche a termine è molto spesso la normale modalità di operare di queste aziende  e non ha alcuna attinenza con il concetto “straordinarietà” che per anni si è richiesto quale giustificazione del contratto di lavoro a tempo determinato. Le recenti modifiche legislative, fortunatamente, hanno sposato questa impostazione, richiedendo unicamente che le ragioni del termine siano specificate e dettagliate. Ma deve essere assicurata all’impresa la libertà di organizzare la propria struttura con contratti a termine anche quando si conduca un’attività continuativa, perché le ragioni del termine spesso esulano dalla tipologia di attività condotta e tali ragioni non possono essere previste in anticipo (le posso fare numerosi esempi) . Per questi motivi non condivido l’idea di tornare alle clausole predeterminate, né il rinvio a quanto possa essere deciso in sede di negoziazione collettiva può essere utile, perché creerebbe comunque motivo di frizione negoziale e rigidità nell’uso di uno strumento contrattuale che i nostri concorrenti europei non hanno. Parimenti, non è corretto sostenere che con il contratto di transizione, che agevola il licenziamento per motivi economici, renda meno necessario il ricorso al contratto a termine, perché esso prevede un preavviso e un’indennità che costituiscono un costo aggiuntivo che le imprese degli altri paesi non devono sopportare.
La ringrazio per l’attenzione e resto a sua disposizione.
Cordiali saluti

Marco Crippa
Human Resources Manager

 

 

Nell’intendimento del progetto, la limitazione drastica del ricorso al contratto a termine costituisce, innanzitutto, una delle contropartite della maggiore libertà di licenziamento per motivo economico od organizzativo. Ma la ragion d’essere di quella limitazione non risiede soltanto in questo equilibrio politico, pur indispensabile. L’obiettivo principale del progetto è di offrire a tutti i nuovi assunti una sostanziale sicurezza di continuità del reddito e – nella misura del possibile – anche del lavoro effettivo, superando la situazione attuale di divisione tra stabili e precari. Nel nuovo regime, dunque, l’impresa rinuncia a disporre di quel “polmone” di precari dei quali oggi dispone liberamente; ma la rinuncia a quel “polmone” è ampiamente compensata dalla possibilità di far fronte alle oscillazioni licenziando. Per esempio, se nel vecchio regime l’impresa aveva cento lavoratori stabili e venti precari, nel nuovo regime essa avrà centoventi lavoratori, tutti a tempo indeterminato; se prima poteva liberarsi a costo zero di quei venti precari, nel nuovo regime tutti sono egualmente protetti contro le discriminazioni, tutti possono perdere il posto in un processo di aggiustamento industriale, ma di tutti quelli che perdono il posto l’azienda deve farsi carico. Nel vecchio regime il lavoratore precario lasciato a casa non aveva alcun sostegno; nel nuovo, il lavoratore ha un sostegno forte, che fa della perdita del posto un evento sopportabile, sovente addirittura un’occasione di miglioramento della propria posizione. L’impresa è incentivata a licenziare prioritariamente gli ultimi arrivati; ma non è tenuta a farlo: se si accolla il maggior costo, può licenziare invece dipendenti con anzianità di servizio maggiore. Risultato: i new entrants hanno maggiori opportunità di far valere il loro talento. E nel tessuto produttivo si otterrà, mediamente, una migliore allocazione delle risorse. Forse non sono riuscito a scalfire la Sua preferenza per il contratto a termine; ma spero almeno di avere spiegato perché la relativa limitazione non ridurrà – anzi, aumenterà – la flessibilità di cui disporranno le imprese, ma la combinerà con una maggiore sicurezza per tutti i lavoratori.  (p.i.)

QUEI “VUOTI” NEL DISEGNO DI LEGGE, RIGUARDO ALLA DISCIPLINA DEI NUOVI RAPPORTI DI LAVORO

Lettera pervenuta il 4 gennaio 2008

Cortese Prof. Ichino,

leggo con molto favore la sua proposta di contratto unico per tutti i lavoratori. Apprezzo il suo spirito riformista e ciò non mi  stupisce visto che la seguo da molto. Vorrei porLe tre brevi questioni.

1) Nella bozza del DDL non si fa alcun riferimento ai diritti e alle tutele spettanti ai lavoratori in caso di malattia, infortunio, gravidanza. Non sarebbe opportuno dedicare loro un articolo, in cui si individuano i criteri di erogazione o si fissano modalità e tempi delle indennità?E, se possibile, potrebbe illustrarne brevemente il loro contenuto, sulla base dei modelli di protezione europei ed internazionali da Lei richiamati?

2) Nella costruzione di un sistema di tutele fuori e dentro il lavoro un contributo potrebbe arrivare dall’esperienza di policy maker della somministrazione?

3) La retribuzione, dovrebbe essere  equiparata a quanto previsto dai Ccnl e aziendali riferiti alla mansione svolta dal prestatore e applicati in azienda? Si può pensare ad un salario minimo di inserimento?
L.P.
Rispondo alle Sue tre domande.
1. Volutamente non è stata inserita nella bozza del disegno di legge una disciplina dettagliata dei rapporti di lavoro con i neo-assunti: questo, infatti, avrebbe appesantito molto il testo legislativo, riducendone la comprensibilità immediata, ovvero l’utilità politica. D’altra parte, questo vuole essere soltanto un canovaccio sul quale deve avviarsi una sorta di “negoziato politico” tra rappresentanti degli imprenditori e rappresentanti dei lavoratori: a questo negoziato il compito di riempire i vuoti del progetto. Se vuole il mio parere, comunque, non ho difficoltà a dirLe che io sarei molto favorevole a una grande semplificazione della disciplina dei nuovi rapporti di lavoro: tra il (quasi) nulla della disciplina degli attuali “lavoratori a progetto” e le enormi bardature normative che gravano sul vecchio rapporto di lavoro di lavoro subordinato regolare (il nostro volume normativo è molto superiore a quello di quasi tutti gli altri maggiori Paesi europei), mi piacerebbe una via di mezzo che consentisse una rilevante semplificazione degli adempimenti e una riduzione del troppo alto “premio assicurativo” implicito, che oggi i lavoratori subordinati regolari pagano ai loro datori di lavoro.
2. Sicuramente sì: le imprese che vorranno ridurre al minimo i costi del sostegno del reddito dei lavoratori licenziati dovranno avvalersi del know-how delle migliori agenzie private di somministrazione, di collocamento e di
outplacement
. La rinvio, a questo proposito, alla mia risposta a una lettera precedente, che lei può trovare qui sotto.
3. Per questa terza domanda vale la risposta data alla prima.  (p.i.)

IL PROBLEMA E’ URGENTE. I TEMPI DELLA RIFORMA NON RISCHIANO DI ESSERE TROPPO LUNGHI?
Lettera datata 18 dicembre 2008
Caro Ichino,
Lei sa quanto seguo da vicino il suo lavoro, ormai da quindici anni e quasi sempre con condivisione. Condivido anche, nelle sue linee generali, questo suo ultimo progetto. Però mi chiedo e chiedo a lei: i tempi di realizzazione del progetto non sono troppo lunghi rispetto all’urgenza dei problemi? Perché il disegno di legge sia approvato non possono passare meno di sei mesi nell’ipotesi più ottimistica; quanto all’accordo tra imprenditori e sindacato, conosco i miei polli: mi sembra impossibile che i primi “contratti di transizione” possano essere stipulati in meno di un anno. Dunque, un anno e mezzo nell’ipotesi migliore. Si chiuderanno le porte della stalla quando ormai i buoi saranno scappati e l’area del lavoro precario, con la crisi, si sarà ulteriormente dilatata. Spero di sbagliarmi; ma soprattutto mi interessa sapere come vede lei questo aspetto del problema.
     G.C.
Con una maggioranza ben decisa e con le idee chiare, i tempi di attuazione del progetto di cui stiamo discutendo non sarebbero così lunghi. In Parlamento oggi anche leggi complesse vengono varate in due o tre mesi; quanto alla negoziazione fra gruppi di imprese e sindacati, essa potrebbe procedere già in parallelo rispetto all’iter parlamentare della legge. Vale comunque anche in questo campo il vecchio apologo: “In un giardino assolato il signore disse al giardiniere: ‘qui fa molto caldo: pianta un albero’. Il giardiniere obiettò: ‘un albero ci metterà almeno dieci anni a dare ombra’. Il signore gli disse: ‘appunto: non c’è da perdere un minuto'”. (p.i.)

COME SI CONCILIA LA NUOVA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI ECONOMICI CON LA DISCIPLINA COMUNITARIA DELLE RIDUZIONI DI PERSONALE?
Messaggio del 20 dicembre 2008
Mi stupisce che un professore di diritto del lavoro come lei proponga un disegno di legge impossibile, perché in contrasto con La direttiva comunitaria europea, che impone una procedura complessa applicabile ai licenziamenti per riduzione del personale.
      P.A.
Non c’è alcuna incompatibilità tra la nuova disciplina proposta e quella comunitaria dei licenziamenti collettivi: là dove i contratti di lavoro che vengono risolti superino le soglie fissate dalla direttiva (cioè oltre i 4 licenziamenti per motivi economici od organizzativi entro il lasso di 120 giorni), le imprese con più di 15 dipendenti dovranno comunque adempiere l’onere della procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e in sede amministrativa. Raccolgo comunque la sua sollecitazione per precisare questa necessaria coniugazione della nuova disciplina con quella comunitaria, nella bozza di disegno di legge.  (p.i.)

CHE COSA PUO’ INDURRE L’IMPRESA, SOPRATTUTTO QUELLA DI PICCOLE DIMENSIONI, A CORRERE I RISCHI DI QUESTA SCELTA? PERCHE’ I NUOVI ENTI BILATERALI DOVREBBERO FUNZIONARE MEGLIO DI QUELLI ATTUALI?
Questa, pervenuta il 6 dicembre 2008, è una delle numerose lettere che mi sono pervenute dopo che la Presidenza del Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale (GIDP), la settimana scorsa, ha diffuso tra gli iscritti la mia bozza di disegno di legge per la transizione alla
flexicurity, sollecitando l’apertura di un dibattito in proposito. Il mio intervento che segue intende rispondere anche ai quesiti analoghi che, in forma diversa, sono posti nelle altre lettere. Segue una domanda (e la mia risposta) sul ruolo delle agenzie di lavoro temporaneo e di staff leasing nel nuovo regime.
Egregio professore,
ho ricevuto dal presidente del G.I.D.P. la bozza del progetto a cui lei sta lavorando. Alla prima lettura ho trovato il progetto molto suggestivo e persino sorprendente nella semplicità del suo impianto; poi, però, mi sono subito sorte alcune perplessità e obiezioni, che qui in sintesi le espongo.
  1. Chi glielo fa fare all’impresa? – Il “contratto di transizione al nuovo sistema di protezione”, che costituisce l’architrave del progetto, espone l’azienda che lo sottoscrive a numerosi rischi: che l’ente bilaterale sia inefficiente o che le cose in generale vadano male e i licenziamenti abbondino (con conseguente lievitazione dei costi necessari per il finanziamento dell’ente). Che cosa può indurre un gruppo di imprese a correre questo rischio?
   2. Alle imprese fino a 15 dipendenti non converrà mai! – Se l’impresa con più di 15 dipendenti può avere interesse alla transizione, per fruire della nuova disciplina dei licenziamenti economici, all’impresa che sta sotto quella soglia il contratto di transizione non converrà mai, perché già oggi essa può licenziare con un costo massimo di sei mensilità da pagare al lavoratore.
   3. In molti settori oggi “ente bilaterale” significa lottizzazione. – La mia azienda opera nel settore del commercio, dove la formazione professionale è affidata a enti bilaterali, che gestiscono un mucchio di soldi. Non mi sembra che li gestiscano bene; viceversa, l’e.b. diventa spesso il “cimitero degli elefanti”: il luogo dove sistemare con alti stipendi sindacalisti obsoleti. Che cosa può indurci a confidare che i nuovi enti bilaterali funzioneranno meglio di quelli attuali?
    Non consideri queste mie obiezioni come una critica distruttiva: apprezzo comunque l’aria fresca portata da questo suo lavoro in un campo dove negli ultimi vent’anni il riformismo sembrava morto e sepolto. Attendo quindi con molto interesse le sue risposte.
Cordialmente
                 L.R.

Cerco di ispondere brevemente ai tre interrogativi.
   1. Chi glielo fa fare all’impresa? – Il trattamento di disoccupazione secondo il “modello danese”, previsto nel progetto, ammonta complessivamente, nel caso più sfortunato nel quale il lavoratore rimanga disoccupato per tutto il quadriennio, al (90% + 80% + 70% + 60% =) 300% della sua retribuzione annua lorda, cioè tre annualità; poiché, però, su questa erogazione non grava la contribuzione previdenziale, il costo che ne consegue a carico dell’ente bilaterale (quindi a carico delle imprese firmatarie del “contratto di transizione” ) è pari a poco più di due annualità.  Anche aumentato dell’indennità di licenziamento (una mensilità per anno di anzianità di servizio), oggi questo è considerato, generalmente, un costo congruo – e al tempo stesso accettabile – per l’incentivazione all’esodo di un dipendente da parte di un’impresa cui si applichi l’articolo 18 dello Statuto. Il “modello danese”, però, coniugando strettamente il sostegno del reddito del lavoratore con iniziative efficaci di riqualificazione mirata e assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, consente di fare affidamento su una durata media dei periodi di disoccupazione molto inferiore a quattro anni: quanto più, dunque, l’ente bilaterale saprà essere efficiente, tanto più le imprese interessate godranno di un vantaggio rispetto ai costi attuali dell’aggiustamento industriale. Per esempio, se si riuscirà a contenere la durata media dei periodi di disoccupazione entro i tre mesi, il costo medio della riduzione o sostituzione di un dipendente con sei anni di anzianità di servizio sarà pari a 8,7 mensilità della sua retribuzione: di molto inferiore rispetto al
firing cost
oggi ritenuto congruo e accettabile.
    Vero è che la convenienza per le imprese medio-grandi deve essere valutata anche in riferimento ai rapporti di lavoro precario cui esse, passando al nuovo regime di protezione, rinunciano: rapporti che oggi consentono la soppressione del posto o la sostituzione del lavoratore con un costo ridottissimo o nullo. Qui la convenienza dovrebbe nascere da una combinazione di “bastone e carota”, dove la “carota” è costituita dalla riduzione al 30% del contributo pensionistico per tutti i lavoratori assunti nel nuovo regime di protezione, dall’aumento a 6 mesi della durata del periodo di prova e dal costo davvero molto ridotto del licenziamento del lavoratore con bassa anzianità di servizio; il “bastone”, viceversa, dovrebbe essere costituito da una applicazione finalmente severa e generalizzata dei limiti di durata complessiva dei contratti a termine, dei limiti assai restrittivi posti dalla legge Biagi per il “lavoro a progetto” (circolari Damiano n. 16/2006 e n. 4/2008) e del divieto di simulazione del lavoro autonomo anche nella forma della “partita Iva”.

   2. “Ma alle imprese fino a 15 dipendenti non converrà mai” – Se anche accadesse che, in una prima fase, il “contratto di transizione” venisse stipulato soltanto da imprese cui si applica l’articolo 18 dello Statuto, non per questo la sperimentazione del nuovo regime di protezione sarebbe meno utile: essa preparerebbe comunque il terreno a una generalizzazione di quel regime, consentendo il superamento del “tabù dell’articolo 18” e l’acquisizione del know-how necessario per il buon funzionamento dei servizi di riqualificazione e ricollocazione. Ma basterebbe che lo Stato si facesse carico della contribuzione (0,5% sul monte salari) gravante sulle imprese con meno di 16 dipendenti (con un onere complessivo per l’Erario di circa mezzo miliardo di euro annui), per rendere vantaggioso il nuovo regime anche per queste, tenuto conto che il progetto dimezza, in questo settore, il preavviso e l’indennità di licenziamento: ho inserito questa previsione alla fine dell’articolo 4, sul finanziamento dell’ente.
   3. In molti settori oggi “ente bilaterale” significa lottizzazione. – E’ vero; ma è anche vero che gli enti bilaterali cui questa equazione si riferisce forniscono quasi esclusivamente servizi di formazione professonale, in una situazione nella quale la qualità dei servizi stessi non è, di fatto, soggetta ad alcun controllo (nessun valutatore, per esempio, fornisce l’indice di andamento gestionale di questi enti costituito dal tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi ne ha fruito): questi enti operano, dunque, senza alcun vincolo di efficienza e produttività. Gli enti bilaterali previsti nel progetto qui in discussione, invece, saranno soggetti a un vincolo molto stringente: se i loro dirigenti saranno scelti secondo logiche di lottizzazione, o comunque secondo criteri diversi da quello della competenza professionale, essi funzioneranno male e questo si tradurrà immediatamente in periodi di disoccupazione più lunghi, quindi in costi più alti per le imprese finanziatrici. Saranno pertanto queste ultime a controllare con grande attenzione che l’ente bilaterale sia gestito bene; al sindacato soltanto il compito di controllare che il rigore e l’efficienza nella gestione dell’ente non si trasformino in vessazione – o anche soltanto eccesso di severità – nei confronti dei lavoratori che ad esso sono affidati.
Il numero di lettere che manifestano perplessità circa la scelta della forma dell’ente bilaterale per la gestione del contratto di ricollocazione, e dei relativi servizi, mi induce comunque a inserire nel disegno di legge – accogliendo il suggerimento di un collega del mio Dipartimento – l’alternativa del consorzio tra imprese: sarà dunque il contratto collettivo di transizione a scegliere tra l’una e l’altra forma dell’ente di servizio.  (p.i.)

SPAZIO E RUOLO DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO NEL NUOVO REGIME
Messaggio pervenuto l’11 dicembre 2008
Gentilissimo e stimatissimo Professor Ichino,
le sarei grata se potesse dare delucidazioni su come il nuovo “contratto unico” di lavoro a tempo indeterminato potrebbe interagire con l’attuale disciplina della somministrazione di lavoro (dovrebbe forse tornare il requisito della temporaneità nel ricorso alla somministrazione di lavoro? oppure il lavoratore somministrato sarebbe da considerarsi come assunto a tempo indet. dall’agenzia di somministrazione in ogni caso?).
Moltissime grazie
      S. C.
Tutto l’impianto della riforma – e quindi anche questo aspetto assai rilevante della questione – dovrà essere oggetto di un negoziato tra rappresentanti degli imprenditori e rappresentanti dei lavoratori: in quella sede dovranno essere ben definiti i casi in cui la somministrazione temporanea di lavoro resta ammessa. Nessun limite, a mio modo di vedere, dovrebbe essere posto nel caso in cui il lavoratore sia assunto dall’agenzia a tempo indeterminato; per lo stesso motivo ritengo che nessun limite dovrebbe essere posto alla possibilità di somministrazione a tempo indeterminato, o staff leasing (una forma di organizzazione del lavoro prevista dalla legge Biagi, abolita nel dicembre 2007, ma probabilmente destinata a essere presto ripristinata): in questi casi si realizza una forma assai avanzata di coniugazione tra flessibilità per l’impresa utilizzatrice e sicurezza per il lavoratore, data dal rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia fornitrice.  (p.i.)

 

 

 

 

 

 

 

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