LE IDEE CONFUSE DI LETTA SUL LAVORO

Il Pd resta il principale garante della continuità della politica europea e atlantica dell’Italia; ma le sue due anime, sono riluttanti a discuterne apertamente fino in fondo le implicazioni sul piano della politica economica e del lavoro

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per
Italia Oggi, 7 settembre 2022 – In argomento v. anche Il Jobs Act spiegato a Enrico Letta

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«Il Pd, che si presenta come il partito del lavoro, su questa materia per tutta l’ultima legislatura si è connotato per l’assenza di analisi e dibattito… E il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessuna elaborazione, nessun confronto in seno al partito; e in questi giorni le prese di posizione del vertice su questa materia fumose, imprecise, tutte impregnate di politicismo», dice Pietro Ichino, giuslavorista ed ex parlamentare del Pd, che della riforma del lavoro conosciuta come Jobs act è considerato il padre. Al segretario del Pd, Enrico Letta, che ha annunciato di volerla superare, Ichino replica: «Letta dovrebbe chiarire a quale parte di questa riforma si riferisce, visto che è composta di otto decreti delegati». E circa il modello spagnolo, a cui il segretario del Pd dice ora di volersi ispirare, Ichino osserva: «Esso prevede per il caso di licenziamento non adeguatamente motivato l’indennizzo del lavoratore fino al limite massimo di 24 mensilità: esattamente quello che è stato introdotto in Italia nel 2015. Poi da noi, nel 2018, il Decreto dignità ha aumentato il limite dell’indennizzo a 36 mensilità; ma non credo che il Pd di Letta intenda riallineare il limite italiano a quello spagnolo».

Domanda. Professore che cosa ha pensato quando Letta ha annunciato che il blairismo in Italia è finito?
Risposta. Mi sono chiesto quando mai ci sia stato, in Italia, il blairismo: in Gran Bretagna ha connotato una lunga stagione politica convintamente promossa da un partito che aveva fatto propria una cultura economico-sociale profondamente nuova rispetto al passato.

Però il Pd di Renzi un po’ di blairismo lo aveva fatto proprio. 
C’è nel Pd un’anima che potremmo anche chiamare blairiana; ma nel Pd ce n’è pure un’altra, quella rappresentata al vertice dal vicesegretario Provenzano. È quella ancora legata all’idea dell’antagonismo irriducibile degli interessi dei lavoratori rispetto a quelli degli imprenditori, all’idea che le multinazionali siano intrinsecamente pericolose sul piano economico-sociale, all’idea che la gestione diretta di un servizio da parte dello Stato o di un Comune sia sempre intrinsecamente migliore rispetto a quella che può offrire un’impresa privata. E il problema è che tra le due anime non c’è dialogo, non c’è una elaborazione politica comune. Letta vuole tenerle insieme, ma fin qui l’operazione è parsa avere un respiro soltanto tattico.

Il segretario del Pd ha precisato che finalmente il programma del partito supera il Jobs act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Lei, che del Jobs act è considerato il padre, che ne pensa?
Il Jobs Act è composto di otto decreti delegati, emanati nel 2015, su materie che vanno dagli ammortizzatori sociali alla disciplina dei licenziamenti e delle dimissioni, dai servizi di collocamento e formazione a quelli di ispezione, dalla disciplina del contratto a termine a quella del part-time, dell’apprendistato, della somministrazione di lavoro, dai controlli a distanza al lavoro dei disabili. Letta dovrebbe chiarire a quale parte di questa riforma si riferisce.

Si può presumere che si riferisca alla parte sui licenziamenti.
Ma in materia di licenziamenti il contenuto originario del Jobs Act consisteva proprio nell’armonizzazione dell’ordinamento italiano rispetto a quello degli altri Paesi europei, e in particolare a quello spagnolo, che prevede, per il caso di licenziamento non adeguatamente motivato, l’indennizzo della persona interessata fino al limite massimo di 24 mensilità: esattamente quello che è stato introdotto in Italia nel 2015. Poi da noi, nel 2018, il “decreto dignità” ha aumentato il limite dell’indennizzo a 36 mensilità; ma non credo che il Pd di Letta intenda riallineare il limite italiano a quello spagnolo.

Non ritiene che per un paese ingessato come quello italiano, dal punto di vista anche imprenditoriale, quella riforma sia stata troppo
L’allineamento del diritto del lavoro italiano a quello di tutti gli altri Paesi dell’UE è stato graduale: è incominciato con la legge Fornero del 2012. E non ne è conseguito alcun aumento dei licenziamenti: la probabilità di essere licenziati, per i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti, è rimasta invariata. È invece cessata un’altra grave anomalia italiana: il tasso elevatissimo del contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti, oltre che di contratti a termine: il quale dal 2012 al 2018 si è più che dimezzato. La sola categoria seriamente danneggiata da questa riforma, a ben vedere, è quella degli avvocati.

Anche i magistrati del lavoro, oltre che gli avvocati, hanno digerito male la riforma dei licenziamenti.
Una parte dei magistrati del lavoro ha percepito una riduzione del proprio ruolo, corrispondente alla drastica contrazione del contenzioso giudiziale in questa materia e in quella dei contratti a termine. Ma la situazione precedente era caratterizzata da una grave ipertrofia del contenzioso giudiziale rispetto a tutti gli altri Paesi su questa materia, e soprattutto quella dei contratti a termine: una vera e propria malattia, dalla quale il sistema-Italia ora è guarito. È su questo che Letta vuole tornare indietro?

Sta di fatto che negli ultimi anni la Consulta è intervenuta più volte a correggere il Jobs Act, proprio su questo tema.
La Corte costituzionale ha apportato alcuni ritocchi alla nuova disciplina dei licenziamenti. Ma il dato più significativo è che essa ne ha confermato l’impianto fondamentale: cioè il passaggio dalla sanzione della reintegrazione del lavoratore, che genera un regime di sostanziale job property, alla sanzione indennitaria, come in tutti gli altri Paesi del mondo. Questo è il passaggio che la sinistra-sinistra, in Italia, non ha ancora digerito. Ma è un passaggio da cui non è pensabile che l’Italia torni indietro.

Nessun ripensamento, non c’è niente che poteva essere fatto diversamente?
Il progetto originario, che era stato fatto proprio dal Pd di Matteo Renzi, era quello del Codice semplificato del lavoro. Nella riforma del 2014-15 al principio della semplificazione formale e sostanziale si ispirano alcuni soltanto dei decreti attuativi: quelli che furono elaborati a Palazzo Chigi. Quelli elaborati allora al ministero del Lavoro, purtroppo, molto meno.

La richiesta di tutela delle fasce povere è cresciuta; il reddito di cittadinanza può essere abbandonato?
Qualsiasi misura di sostegno del reddito delle persone disoccupate ha un effetto di disincentivo al lavoro, se non è accompagnata da una verifica rigorosa della disponibilità al lavoro di ciascun beneficiario. Questa, nel nostro caso è mancata e manca del tutto.

Gli stipendi italiani sono più bassi della media europea: il salario minimo è una via da percorrere per ridare dignità ai lavoratori e tutelare le famiglie contro il caro vita?
No: il salario minimo orario non può essere spacciato come una misura efficace per un aumento generalizzato delle retribuzioni; e neanche come una misura efficace per il loro adeguamento al caro-vita. Il minimum wage è utile solo per correggere le situazioni di sfruttamento della manodopera più povera e sprovveduta, che si colloca nella fascia più bassa del mercato del lavoro e che è penalizzata da gravi difetti di informazione, di formazione professionale e/o di conoscenza della lingua.

Per gli altri quali possono essere le misure efficaci?
La riduzione del “cuneo” fiscale e contributivo, anche qui con una armonizzazione rispetto alla media europea, costituisce sicuramente una misura opportuna. Ma il problema non si risolve alla radice finché la produttività media del lavoro ristagna. È necessario comunque un più stretto collegamento tra retribuzioni e produttività, che può essere dato soltanto da un sistema contrattuale che incentivi e privilegi la contrattazione delle retribuzioni al livello aziendale.

Lei è stato illustre parlamentare del Pd; è ancora il suo partito?
Sì. È sempre la mia casa, perché, nonostante tutto, lo considero come un pilastro indispensabile del sistema democratico italiano e, ancora oggi, il maggior garante della partecipazione dell’Italia da protagonista al processo di costruzione della nuova UE e di integrazione in essa del nostro Paese.

Cosa significa quel “nonostante tutto”?
Per quel che riguarda la politica del lavoro sono sconcertato dall’assenza pressoché totale nel Pd di elaborazione e discussione. Paradossalmente, quello che si presenta come il “partito del lavoro” per tutta quest’ultima legislatura è stato privo di un vero responsabile per questo settore, con la conseguente assenza di analisi e proposte su cui potesse svilupparsi un dibattito interno. Sulla politica del lavoro le due anime del Pd di cui parlavo prima per un intero quinquennio si sono limitate a guardarsi in cagnesco.

Con la segreteria Letta, però, la responsabilità della politica del lavoro è stata assegnata al vicesegretario Provenzano.
Ma di politica del lavoro Provenzano non ha alcuna competenza specifica e comunque, di fatto, si è occupato soltanto molto marginalmente: il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessuna elaborazione, nessun dibattito in seno al partito; e in questi giorni le prese di posizione del vertice su questa materia fumose, imprecise, tutte impregnate di politicismo.

Se dovesse spiegare che partito è oggi il Pd a uno straniero che direbbe?
Un partito con due anime, che condividono saldamente l’opzione fondamentale europea e quella atlantica, ma sono riluttanti a discuterne apertamente fino in fondo le implicazioni sul piano della politica economica e del lavoro.

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